Mario Birardi, un protagonista della storia sarda e italiana

di Salvatore Cherchi

Mario Birardi, classe 1930, nato a La Maddalena, padre pescatore, tesserato al Pci dal 1949, ha partecipato con ruoli di primo piano al consolidamento e allo sviluppo del Partito comunista in Sardegna. Ne è diventato segretario regionale guidandolo in una fase caratterizzata dal passaggio da una situazione di stallo alla grande crescita del consenso elettorale e dell’influenza politica.  Quella fase fu prodromica all’ingresso dei comunisti nel  governo della Regione negli anni ottanta. E’ stato membro della segreteria nazionale del Pci, con Enrico Berlinguer segretario generale, dal 1976 sino al 1983, in anni segnati dalla massima espansione della forza del partito e da drammatiche vicende nella vita del Paese. Verrà eletto deputato e poi passerà al Senato subentrando al senatore di Nuoro, Mario Cheri. Precedentemente era stato consigliere regionale e provinciale. Farà parte del gruppo dirigente centrale del partito   sino al suo  scioglimento  e alla fondazione del Partito democratico della sinistra al quale aderirà.  Ritornato a La Maddalena ne divenne sindaco. Ha coltivato l’ammirazione per Giuseppe Garibaldi raccogliendo una imponente mole di carte e oggetti sull’Eroe dei duemondi  riversati nel Memoriale a Caprera: il suo generoso apporto è stato determinante per realizzarlo. 

       Ripercorrere la biografia politica di Mario Birardi equivale a un viaggio attraverso un lungo tratto della storia dei comunisti italiani e del loro ruolo nella più vasta storia della Sardegna e dell’Italia a partire dalla formazione della Repubblica e dalla conquista dell’Autonomia speciale e sino all’ottantanove che conclude “il secolo breve”. A supporto di questa affermazione si consideri che l’attività di un dirigente del Partito comunista - non solo in quel partito ma lì specialmente – si realizzava in un organismo collettivo,  intelligente e combattivo, e aggiungo ben più sostanzialmente democratico – nonostante il suo centralismo – rispetto alle formazioni politiche della novatrice seconda Repubblica, irrimediabilmente connotate da leaderismo personalistico – l’io che prevale sul noi - e talvolta da vere e proprie degenerazioni autoritarie.

    Chiarisco subito che non è obiettivo di questa nota tracciare la intera biografia politica di Mario Biradi. Di questa e, più in generale, della storia del Partito comunista in Sardegna (manca infatti un lavoro completo, esteso all’intero periodo della sua esistenza, mentre sono numerosi gli studi sul partito dal 1943 al primo dopoguerra) è buona cosa che si occupi chi ha i ferri del mestiere dello storico: nel deposito archivistico organizzato dalla Fondazione Berlinguer troverà copioso e interessante materiale di indagine, arricchito, ora, dal “Fondo Birardi”. Questo fondo consiste di ben 97 grossi raccoglitori di documenti che spaziano dal 1945 al 2014, che – come si mostrerà più avanti -  costituiscono una fonte primaria anche per gli studi sulla storia nazionale del Pci. La mia nota è circoscritta a flash su alcuni periodi, flash fatti tenendo presenti i documenti depositati nell’archivio della Fondazione.

       La storia del ‘900 dell’isola di  La Maddalena è strettamente legata alla Marina Militare. L’Arsenale, istituito nel 1895, e la espansione delle funzioni connesse, compresa una Scuola per allievi operai, avevano gradualmente trasformato l’Isola, un tempo colonia penale, in popolosa comunità dotata di servizi notevoli per quantità e qualità, derivanti dall’ elevato livello  dell’industria militare. A La Maddalena si svolse uno dei più significativi fatti di resistenza armata all’esercito tedesco in Sardegna. Tra l’8 e il 15 settembre marinai e carabinieri resistettero con successo al tentativo dei reparti tedeschi di stanza nel territorio sardo, di occupare le postazioni militari maddalenine. Marinai e carabinieri pagarono un notevole tributo di sangue; la corazzata Roma fu colpita e affondata dall’aviazione tedesca. Carlo Azeglio Ciampi ha avuto il merito, più di ogni altro uomo delle Istituzioni, di ricordare agli italiani che la Resistenza fu fatta, come accadde a La Maddalena, anche da militari leali e generosi verso la Patria.

      Nel 1946 la comunità maddalenina si interrogava sul proprio futuro, preoccupata, a ragione, delle ricadute sociali della smilitarizzazione che le potenze vincitrici avrebbero imposto, come in effetti si verificò, con l’imminente Trattato di pace (Parigi, 10 febbraio 1947).  L’amministrazione comunale, sindaco Elindo Balata,  si attivò per chiedere al governo e alle forze politiche iniziative economiche atte a bilanciare i paventati effetti sociali. Così fece la locale sezione del Pci che coinvolse Renzo Laconi, deputato all’Assemblea Costituente, con una lettera del segretario di sezione Tommaso Palitta, 16 giugno 1946, cui seguirono inviti a visitare l’Isola. Il Pci  fece la sua parte. La stessa amministrazione comunale ringraziò  Renzo Laconi per l’impegno speso. Le misure economiche richieste riguardavano la istituzione di una zona franca, la trasformazione della base navale in cantiere navale civile e la costruzione di un bacino di carenaggio. Della zona franca non se ne fece niente; il Governo rimase tenacemente contrario.  La Marina Militare però non smobilitò e anzi, assolti gli obblighi del Trattato di pace e entrata l’Italia nella Nato, avviò un nuovo ciclo espansivo culminato negli anni settanta con la concessione agli USA di una base logistica, nell’isola di Santo Stefano, per sottomarini a propulsione nucleare armati con missili in grado di trasportare testate atomiche. Contro la base americana si sviluppò un grande movimento popolare ma infine il progetto fu realizzato.  In quegli anni l’Arsenale raggiunse la punta di circa 700 addetti.

         A La Maddalena, già nell’immediato dopo guerra, era dunque attiva una sezione comunista, impegnata nei problemi sociali della comunità, collegata con i dirigenti regionali del partito.  Del clima politico locale ha raccontato lo stesso Mario Birardi LaMaddalena.info). Siamo nel 1945. Quindicenne si era iscritto al corso 1945-48 della Scuola Allievi Operai dell’Arsenale e, contemporaneamente, si avvicinava alla politica frequentando il movimento giovanile socialista, sezione Giacomo Matteotti. Anche nell’Isola vi erano risveglio e impegno. Le sinistre unite avevano partecipato alle prime elezioni comunali del ’46. Ricorda Birardi che vi fu grande delusione per la sconfitta delle sinistre nelle elezioni politiche dell’aprile 1948 e che dall’Arsenale partì una manifestazione di protesta per l’attento a Togliatti nel successivo luglio. Lo scivolamento della sezione socialista verso posizioni socialdemocratiche spinsero lui ed altri ad aderire al Partito comunista. Si trattò di una scelta risultata poi di importanza decisiva nella sua vita: così si può dire a consuntivo senza alcun rischio di sconfinare nella retorica.

     Il Pci del 1949 era un partito già molto strutturato con una nitida identità politica e programmatica e una forza in crescita anche nel Mezzogiorno.  Il V Congresso nazionale, primo del dopoguerra, aperto a Roma il 29 dicembre del ’45 sotto la guida di Palmiro Togliatti, ne aveva definito il programma fondamentale per l’Italia, sintetizzato nella formula della “democrazia progressiva”. Il partito fu innovato nella sua costituzione organizzativa rispetto alla forma classica dei partiti comunisti. Nacque il “partito nuovo”, non un partito di quadri ma un partito di massa con milioni di iscritti e una presenza capillare nel tessuto sociale del Paese.

    In Sardegna dopo la ricostituzione di un embrione di organizzazione regionale (Oristano, 5 novembre 1943, segretario Giuseppe Tamponi con Andrea Lentini, Peppino Frongia e Agostino Chironi in segreteria), superato il progetto del Partito Comunista di Sardegna, la sequenza dei congressi tenuti a Iglesias (11,12 marzo 1944, Antonio Dore è eletto segretario) e a Cagliari  (25-27 maggio 1945), e la prima conferenza regionale dei quadri comunisti (Cagliari 25-26 aprile 1947) cui partecipò  Palmiro Togliatti, diedero ai comunisti sardi una specifica fisionomia e un solido gruppo dirigente. La piattaforma politica fu basata sull’Autonomia, l’autogoverno del popolo sardo, e su una riforma profonda della struttura economico-sociale dell’Isola per cambiare le condizioni di vita di lavoratori e ceti popolari. Le parole d’ordine del documento conclusivo del Congresso di Cagliari sono: “Per la libertà della Sardegna, per la distruzione della miseria e della servitù e per l’autogoverno del popolo sardo”. Con la Conferenza organizzativa del 1947   si afferma una più precisa e feconda idea dell’Autonomia intesa come questione democratica (“che interessa il ricco e il povero”, dirà Togliatti) strettamente intrecciata con la questione sociale. A questo esito si giunse attraverso un processo segnato da contraddizioni e incertezze che ebbero riflessi sui contenuti e sull’approvazione dello Statuto di Autonomia Speciale. La posizione aperta di Togliatti, più avanzata rispetto a quello del gruppo dirigente comunista sardo, incontrava tuttavia un limite nel considerare come eccezione il regime di autonomia concesso a determinate Regioni. Si veda al riguardo il discorso di Togliatti (11marzo 1947) nell’Assemblea Costituente. Togliatti afferma: «siamo all’avanguardia della lotta per la libertà dei popoli siciliano e sardo in un’Italia democratica» ma circa lo Stato regionalista,  seppure concorda sul decentramento amministrativo, è sostanzialmente contro la concessione di spazi di potestà legislativa primaria alle Regioni. Si perseguiva, dunque, l’assetto di uno Stato accentrato come soluzione necessaria per realizzare la trasformazione della società italiana. Umberto Cardia, molti anni dopo, vi coglierà un netto distacco dall’elaborazione di Antonio Gramsci e dalle conclusioni del congresso tenuto in clandestinità a Colonia nel 1931. Girolamo Sotgiu ha indagato a fondo il rapporto fra “ Movimento Operaio e Autonomismo” (1975, De Donato Editore). Il libro di Sotgiu è una bella lettura per chi sia interessato a conoscere le radici dell’autonomismo dei comunisti.  Il dibattito storiografico è tuttavia ancora aperto. Nei mesi successivi alla Conferenza del 1947, il gruppo dirigente fu assestato. Togliatti aveva dato un giudizio critico sullo stato del partito in Sardegna definendolo “non all’altezza dello sviluppo generale del Partito”.  Antonio Dore lasciò l’incarico di segretario regionale a Velio Spano. Il carteggio depositato nell’archivio della Fondazione attesta, con la determinazione, anche l’attenzione e il rispetto, verso Dore, di Pietro Secchia e di Velio Spano nel trattare il delicato passaggio. Sulla riorganizzazione del Pci in Sardegna dopo la caduta del fascismo e sul suo sviluppo disponiamo di memorie dei protagonisti – ho tenuto presenti in particolare quelle di Giovanni Lay – e di numerose pubblicazioni di  storici  a partire dal lavoro di Piero Sanna (Storia del PCI in Sardegna dal 25 luglio alla Costituente, Della Torre , 1977). Il Pci passò dal 12,5 % dei voti ottenuti nelle elezioni del 1946 al 19,4% nelle elezioni del 1949 per il Consiglio regionale.

   Il nucleo primario dei comunisti sardi era  fatto di persone forgiate  nella clandestinità, nella deportazione al confino e nelle prigioni fasciste o sorvegliate speciali in Sardegna, costrette all’inattività ma non arrese. Fra queste persone vi erano Velio Spano, condannato a morte due volte; Giovanni Lay, in prigione con  Gramsci a Turi; Luigi Polano, venti anni in Russia, voce  di controinformazione sulle falsità della propaganda fascista; Antonio Dore, confinato a Lipari; Giovanni Agostino Chironi, condannato a sette anni per ricostituzione del Partito comunista; Pietro Cocco, confinato, diciottenne, prima a Cortale e poi a Ponza; Francesco  Bussalay, partigiano combattente; Antonio Cassita,  con Polano nel 1921 a Livorno, incarcerato dal regime;  Andrea Lentini, sindaco di Gonnesa deposto dai fascisti , al confino dal ’26 al ’31; Peppino Salidu, in carcere negli anni trenta, storico organizzatore dei comunisti clandestini a Iglesias; Raffaele Cois, esule in Francia, arrestato e confinato al rientro in Italia; i già menzionati Giuseppe Tamponi e Peppino Frongia; Renato Mistroni, emiliano, in domicilio coatto in Sardegna dopo anni di carcere,  Achille Prevosto, fermato nel 1929, Giuseppe Borghero,.  Negli anni a cavallo della caduta del fascismo e la fine della guerra una nuova generazione di militanti era affluita al partito. Fra questi Enrico Berlinguer, Renzo Laconi,  Luigi Pirastu,  Ignazio Pirastu, Girolamo Sotgiu, Alfredo Torrente, Gigi Piga, Luigi Marras, Sebastiano Dessanay, Pietrino Melis, Umberto Cardia, Armando Congiu, Giovanni Ibba, Antonio Urraci, Luigi Ledda, Basilio Cossu. Il nucleo primario e la nuova generazione formarono i gruppi dirigenti del partito e del sindacato riorganizzati. Alcuni di loro furono eletti nelle prime Assemblee democratiche del dopoguerra.

        Il contributo delle donne in quella fase è stato in parte relegato in una zona d’ombra che ne oscura il valore. Nel nuovo regime democratico le donne avevano avuto, infine, il riconoscimento del diritto al voto  (1946), ma una sola donna comunista, Nadia Spano, fu eletta, in Sardegna, nel Parlamento del 1948 e una sola donna, Claudia Corona Loddo, figurò tra i tredici comunisti eletti nel Consiglio regionale del ’49. Per scoprire l’apporto delle donne  si legga questa avvincente trilogia di libri: Mabruk di Nadia Gallico Spano, deputata alla Costituente eletta a Roma,  Un compagno di vita, di Luciana Chiari Pirastu,  partigiana emiliana; Da Rodi a Tavolara di Bianca Ripepi Sotgiu, lei e il marito Girolamo riconosciuti  “giusti fra  le nazioni” per aver salvato cittadini ebrei dai campi di sterminio,  arrestata e condannata per l’occupazione della terre. Si riscontrerà che tante donne erano sapienti e infaticabili organizzatrici dei movimenti e che le donne parteciparono massicciamente alle lotte sociali nel bacino minerario e  per la terra nella Nurra, nel Goceano, nel Logudoro, a sa Zeppara e in ogni altro luogo si siano svolte.  I comunisti con i socialisti e i sardisti erano  l’anima politica dei movimenti che  al fondo avevano l’obiettivo di dare contenuto sociale alla conquistata Autonomia speciale. L’idea autonomistica camminò sulle gambe dei minatori e dei contadini e dei braccianti senza terra. Il Congresso del popolo sardo, maggio 1950, osteggiato dalla Democrazia Cristiana, darà forte base programmatica al movimento per la Rinascita.

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  Racconta Mario Birardi (LaMaddalena.info)che in occasione di un impegno politico a Sassari incontrò Girolamo Sotgiu, segretario della federazione che “con poche parole come era suo costume, mi invitò a trasferirmi nel capoluogo per  seguire la federazione giovanile comunista”. Accettò l’invito e divenne segretario della locale federazione giovanile.

      Nel marzo ’49 il Comitato entrale del Partito aveva deciso di riorganizzare la Federazione dei giovani comunisti italiani (FGCI) dopo che l’esperienza unitaria del Fronte della Gioventù si era dissolta nel clima della guerra fredda. Il compito fu assegnato a Enrico Berlinguer che del Fronte della Gioventù era stato segretario nazionale. Berlinguer era già un dirigente nazionale con importanti esperienze alle spalle. Dal VI congresso nazionale del partito (Milano, 1948) era uscito come membro candidato della Direzione nazionale in rappresentanza  dei giovani. La Direzione nazionale era fatta di sole 21 persone. A quel Congresso Berlinguer era stato delegato dalla federazione di Sassari ma solo come supplente di Luigi Polano, Francesco Bussalay, Gavino Perantoni Satta, delegati a titolo pieno.  Il 29 marzo 1950 a Livorno, Teatro Goldoni, si aprì il Congresso di ricostituzione della FGCI. Scelta simbolica quella di Livorno, rievocatrice della nascita del Partito comunista nel 1921. Per le coincidenze della storia, toccò a due sardi di Sassari, Luigi Polano e Enrico Berlinguer, e nello stesso luogo, di annunciare, il primo, nel 1921, la decisione della Federazione giovanile socialista di confluire con i comunisti e  di presiedere, il secondo, nel 1950, il Congresso  della ricostituzione  della FGCI. Birardi partecipò al congresso di Livorno, intervenne nel dibattito e fu eletto nel Comitato centrale.  Fu in quegli anni di comuni esperienze nella FGCI  che fra Mario Birardi e Enrico Berlinguer nacque un solido rapporto politico e di amicizia personale.

      Nel frattempo venne chiamato a fare il servizio militare in marina e imbarcato sull‘Andrea Doria come macchinista. Dopo poche settimane, ai vertici della Marina arrivò la comunicazione che Mario è un giovane funzionario della FGCI. In sole 48 ore arriva l’ordine di trasferimento per l’isola di Favignana dove viene sbarcato con due casse colme di libri pensando di punirlo... non sapendo che questo avrebbe invece contribuito ad accrescere la sua cultura e la sua preparazione personale! Fatti 20 mesi di servizio militare, senza mai avere una licenza - vi respirerà il clima di discriminazione e di diffidenza verso i comunisti - si trasferisce stabilmente a Sassari, prende la tessera nella cellula Togliatti, sezione Stella Rossa e diventa funzionario della FGCI a tempo pieno.     

       L’ossatura del partito era fatta di persone totalmente impegnate nell’attività politica. Definiti “rivoluzionari di professione” (tali erano Gramsci, Togliatti, Terracini, di Vittorio, Velio Spano, qui citati a titolo esemplificativo) negli anni della clandestinità e della resistenza al fascismo, sul finire degli anni ottanta, in tempi di montante discredito dei partiti e di indiscriminata antipolitica, il funzionario di partito venne superficialmente etichettato come “uomo d’apparato”. Eppure funzionari di partito erano Enrico Berlinguer e, in tempi molto più recenti, Massimo D’Alema e Walter Veltroni.  Walter Piludu, caro compagno, uno che negli anni settanta scelse di interrompere gli studi in medicina per interamente dedicarsi al PCI, ripensando la sua scelta a decenni di distanza (Il cugino comunista, Cuec), ricorse al concetto di Beruf  (Max Weber) per definire l’identità dei funzionari del partito. Beruf è una parola tedesca che non ha un unico corrispettivo in italiano perché scrive Piludu “ è la sintesi di due concetti, da un lato lavoro, professione, dall’altro lato vocazione”. La definizione data da Walter Piludu restituisce l’identità vera del funzionario comunista: non poteva svolgersi quel lavoro senza una forte passione politica. Senza cedere ad alcuna visione mitizzante del partito e dei suoi dirigenti, si deve riconoscere che erano uomini di grandi ideali e di forte tempra, uomini talvolta non immuni da ambizioni personali, ma come dimenticare che uomini come Enrico Berlinguer, Luigi Petroselli, Sergio Cavina e tanti altri consumarono ogni loro energia nella politica lasciando di sé stessi memoria di moralità?

       Doveva studiare chi si dedicava al partito. La direzione politica richiede solida preparazione. L’operaio tornitore Mario Birardi (orgogliosamente si definirà “dottore in ferro battuto”) frequenta le scuole di partito  a Roma e Bologna. Roba impegnativa. Testi di Emilio Sereni, personalità di cultura straordinaria, economisti come Antonio Pesenti, intellettuali come Luca Pavolini e altri, tutti di notevole spessore. Molta economia politica con approfondimenti del pensiero di Marx e Lenin e – non poteva mancare in quel periodo - di Stalin.  Nell’archivio sono conservati i blocchi di fitti appunti, la  tesi   su “ La legge fondamentale del capitalismo contemporaneo” riferita al pensiero di  Stalin, redatta a conclusione del  corso per dirigenti 1953/54 alle  Frattocchie, e la valutazione finale (due fitte pagine) firmata da Mario Spinella e Edoardo D’Onofrio: esame superato ma con una serie di raccomandazioni. Nel Pci di allora era dovere di ogni iscritto studiare il pensiero marxista-leninista. Questa dovere sarà eliminato decenni dopo con Berlinguer. Anche i programmi dei corsi di studio indicano il legame di ferro fra il partito di allora e l’Unione Sovietica. Birardi ha conservato materiale  relativo alla Scuola superiore per quadri intitolata a Andrej Zadnov, generale dell’armata rossa a Leningrado, protagonista di sanguinose epurazioni, custode dell’ortodossia dogmatica spinta sino alla messa all’indice di Anna Achamatova e di Dimitri Shostakovic e di tante altre personalità della cultura.  Togliatti aveva già avviato il “partito nuovo” della “democrazia progressiva”  e delle “vie nazionali al socialismo” – con alla base il pensiero antidogmatico di Antonio Gramsci - su una strada originale. Ma questa strada sarà percorsa con stridenti contraddizioni quali la partecipazione al Cominform e, in particolare,  la condivisione dell’invasione dell’Ungheria. I fatti ungheresi ebbero riflessi anche in Sardegna dove si ebbero dimissioni e abbandoni. Secondo Nadia Spano (vedi Mabruk) si deve al clima conseguente a quei fatti, la sconfitta del partito nelle elezioni regionali del 1957. Questo nesso causale non fu riconosciuto da Togliatti che risolse il tutto con il cambio del gruppo dirigente sardo. Il Pci guidato da Longo dissentirà senza incertezza alcuna sull’invasione di Praga nel 1968. Ma è con Enrico Berlinguer che si realizzerà, in poco tempo, una vera e propria rottura su tutte le questioni fondamentali fra il Pci e il Pcus: qui si coglie uno dei suoi più importanti

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      Facciamo un salto di venti anni al 1974, anno denso di fatti importanti. “La Sardegna è cambiata…nel popolo vi sono profonda ansia e volontà di rinnovamento”: così commentava il segretario regionale del Pci, Mario Birardi, l’esito del referendum popolare per l’abrogazione della legge sul divorzio, voluto e animato innanzitutto da Amintore Fanfani. Siamo nel maggio 1974. In Sardegna il NO alla cancellazione della legge prevalse con un netto 55,12%, di gran lunga il miglior risultato nel Mezzogiorno e nelle Isole. Infatti il No si affermò di misura solo in Sicilia e in Molise mentre il SI vinse  in tutte le altre regioni meridionali.  A ragione Birardi rivendicava il contributo “determinante” dei comunisti sardi alla maturazione nell’Isola di una nuova coscienza dei diritti civili. La prova referendaria era stata affrontata con una organizzazione potente e capillare, fatta di persone fortemente motivate. La mobilitazione era stata avviata tempestivamente con  una manifestazione regionale a Cagliari il 10 marzo, due mesi prima  del voto , con  Birardi e  Berlinguer. Il successo non fu l’esito del solo generoso impegno  profuso dai militanti.  Il gruppo dirigente sardo, infatti, diede prova di saper governare in modo intelligente la sfida del referendum in rapporto agli altri  importanti  fronti politici aperti.  Oltre il referendum sul divorzio, infatti, incombevano le elezioni regionali ed era in atto un forte e unitario movimento popolare di  rivendicazione di un nuovo Piano di Rinascita. Non era una prova semplice. I rischi di rottura del fronte unitario per la Rinascita erano molto alti. La linea politica adottata fu di mantenere la più vasta unità di popolo  fra le forze politiche e sociali per alimentare e rafforzare il movimento per la nuova Rinascita e, contestualmente, di affrontare la partita referendaria con determinazione ma anche con spirito di dialogo con la parte più aperta del mondo cattolico e della stessa Democrazia Cristiana. Non casualmente il Consiglio regionale approvò un ordine del giorno unitario sulla inopportunità di un  referendum sul divorzio.  Il segretario Mario Birardi dimostrò lungimiranza invitando  i militanti a “ superare ogni ritardo e il complesso che vi è anche in qualche frangia del partito  e del nostro elettorato a considerare il referendum come un elemento di disturbo della battaglia in atto per un nuovo Piano di rinascita, per il rilancio dell’Autonomia, per una nuova direzione politica. Mettiamo anzi in evidenza il rapporto che c’è tra la battaglia autonomistica  e la battaglia per vincere il referendum”. Fu una strategia politica vincente su tutti i fronti.

        L’anno 1974  si era aperto con una grande manifestazione di popolo, il 29 gennaio, organizzata da CGIL, CISl e Uil, discorso conclusivo di Luciano Lama. Obiettivo centrale della vertenza Sardegna: la nuova legge per la Rinascita. Quella straordinaria partecipazione di popolo – ne ho conservato nitida memoria - era il frutto di una capillare discussione . Si discuteva in un vero dibattito di massa, di correzione  del modello di sviluppo della Sardegna sulla base di una  forte critica dell’industrializzazione forzata e dei  poli di fabbriche di prodotti di base. Si discuteva  di una fase nuova dell’economia con investimenti  nella piccola e media impresa, nelle risorse locali e per la riforma agropastorale.  Il movimento per la nuova Rinascita  era alimentato anche  dal buon  lavoro fatto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul banditismo. IL Pci era effettivamente l’anima politica di quel movimento unitario di massa.   Su Rinascita sarda (1973) la linea della Direzione regionale comunista era così sintetizzata : “L’ispirazione generale che ha mosso e muove l’azione dei comunisti in Sardegna è quella di costruire un’alternativa democratica, di governo della Regione, in stretto collegamento con i problemi reali e con le lotte popolari. La posizione responsabile del Pci non è il risultato di una discussione che si svolge all’interno di un partito che pure costituisce così larga parte del dei ceti operai e popolari: esso trova un riscontro positivo nel movimento autonomistico, nella lotta dei lavoratori e degli studenti, nell’iniziativa delle tre grandi confederazioni sindacali”.

       La vertenza Sardegna conquistò l’obiettivo del nuovo Piano di Rinascita. Il Parlamento varò la legge n.268 del 24 giugno 1974 con una dotazione finanziaria di 600 miliardi di lire destinati  alla riforma agropastorale e all’agricoltura, alla piccola e media impresa, alle risorse locali e agli interventi per la casa. I cardini della riforma agropastorale erano la costituzione di un monte pascoli di 500mila ettari e l’irrigazione di 200mila ettari. Non è questa la sede per analizzare gli esiti del secondo piano di rinascita. Tre considerazioni sono però possibili. La prima: l’obiettivo di un modello di sviluppo basato sulle risorse locali e non più sull’industrializzazione forzata rimonta almeno all’inizio degli anni settanta e ha impegnato consistenti risorse del bilancio pubblico. Molto si è riflettuto sui limiti delle politiche per l’industrializzazione, poco sugli esiti  delle politiche per l’agricoltura e le risorse locali. La seconda : dopo la legge sul secondo piano di rinascita, l’articolo 13 dello Statuto, il cuore del contenuto sociale dell’Autonomia, è stato accantonato, tacitamente cancellato, e sostituito da intese fra Stato e Regione: non sono la stessa cosa. La terza: nei decenni successivi a questo periodo i territori interni non hanno più avuto una  centralità marcata nelle decisioni politiche. C’è stata e c’è  molta retorica sui territori interni ma non una strategia efficace per contrastarne lo spopolamento.

        Le elezioni del Consiglio regionale (16/17 giugno) completarono la serie dei successi politici del 1974. Il Pci ottenne il 26,8% dei voti con un incremento di sette punti percentuali, 70mila voti in più rispetto alle precedenti elezioni del 1969. Gli equilibri politici furono sconvolti. Il voto sardo per le regionali anticipò gli esiti del trionfale biennio elettorale nazionale   1975/76.  Nel 1975 il Pci fu il primo partito nella provincia di Cagliari: la prima provincia rossa del Mezzogiorno. Alberto Palmas, uno dei dirigenti più in vista del partito di Cagliari, ne divenne presidente. Si conquistarono le province di Sassari (presidente Giovanni Maria Cherchi, professore e scrittore di belle poesie in limba ma anche di grande prestigio politico, più volte consigliere regionale), di Nuoro, (Mario Cheri prima vicepresidente e poi presidente) e molte amministrazioni comunali.  Anche in Sardegna il successo del 1975 fu ripetuto nelle elezioni politiche del 1976. I comunisti sardi superarono il 35 % collocandosi al di sopra della media nazionale. In Parlamento fu eletto Mario Melis, sardista candidato nelle liste comuniste a riscontro della confermata  positiva intesa con il PSdAz alimentata dal costruttivo rapporto fra Mario Birardi e Michele Columbu. L’archivio conserva la corrispondenza epistolare fra i due segretari. Michele Columbu vi esprime concetti politici costruttivi con spirito arguto e accattivante.

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     Nelle settimane successive al golpe militare (11 settembre 1973) che aveva deposto il legittimo governo cileno retto da Allende, Enrico Berlinguer propose, al Partito e al Paese,  la strategia del “Compromesso storico” e dell’alternativa democratica. Questa  strategia   fu confermata nel successivo congresso nazionale, il XIV, definendola come   “una nuova tappa di sviluppo della democrazia  che introduca nelle strutture della società alcuni elementi propri del socialismo”. E’ necessario esaminare come,  in Sardegna,  questa  strategia sia  stata valutata e tradotta in linea di condotta. In generale era largamente   condivisa ma bisogna ricordare che  Luigi Longo manifestò  riserve e scrisse sull’Unità che sarebbe stato più appropriato fondare la strategia sul  concetto gramsciano di “blocco storico”, e che  Umberto Terracini dissentì. Rafforzata dai successi elettorali del biennio 1975-76, era tuttavia variamente interpretata e applicata a Roma e nei territori, ed è tuttora oggetto di dibattito controverso.

      Prima di venire al punto concernente la Sardegna, introduco una disgressione. Nell’archivio di Birardi è conservata una relazione di Giancarlo Pajetta, responsabile della sezione esteri, sulle tragiche vicende cilene, datata 18 settembre 1973, cioè una settimana dopo il golpe di Pinochet. La relazione, presentata come appunti presi in una riunione di comunisti, classificata riservata e  non destinata alla stampa,  fu inviata ai segretari regionali dalla Direzione nazionale il 10 ottobre, contestualmente alla pubblicazione su Rinascita, settimanale nazionale,  del terzo ed ultimo articolo  di Berlinguer con i quali  argomenta la strategia del Compromesso storico.  L’ampia  relazione conservata da Birardi, è importante perché vi si analizza non solo il  blocco reazionario interno al Cile, costituitosi fra la destra clerico-fascista e le forze armate, e il sostegno decisivo  del Governo americano al golpe. Pajetta esamina senza infingimenti gli errori compiuti da Unidad Popular – soprattutto a causa dell’estremismo dei socialisti -  e dallo stesso Allende nella valutazione della situazione cilena e nella linea politica seguita. Unidad Popular errò, scrive Pajetta, nel valutare le Forze armate come un soggetto neutrale e rispettoso della legalità democratica e errò nel considerare fattibile una trasformazione  socialista senza conquistare a questo obiettivo la grande maggioranza della popolazione. Unidad Popular dialogò con l’opposizione democristiana ma questo dialogo “è sempre partito dall’idea che non potesse esserci una concessione”, scrive Pajetta. Non ci fu compromesso. Si realizzò una frattura verticale nella società e fra le forze politiche democratiche che aprì la strada alla reazione clerico-fascista  e al golpe che  depose Allende e sciolse il Parlamento a maggioranza democristiana. “Il Cile è una cosa che ci è vicina” sottolinea Pajetta, e aggiunge “L’esperienza cilena dimostra .. la indispensabilità di una politica di alleanze e dimostra che non c’è politica di alleanze senza un compromesso, cioè senza un accordo che tenga conto degli interessi anche di altre classi sociali”. I  concetti e le analisi di Pajetta   sono stati ripresi, anche testualmente,  da Peppino Fiori nella biografia di Berlinguer, e presentati come provenienti da una relazione alla Direzione del Partito. Lo stesso Fiori mette  le analisi e le conclusioni di Pajetta sui fatti del Cile in stretta relazione  con la strategia del Compromesso storico.

    Questa relazione di Pajetta  non poteva essere resa pubblica. Potevano ingenerarsi malintesi.  Il primo dovere di una forza internazionalista  era  infatti la solidarietà  e il sostegno alla  resistenza in atto, generosa seppure destinata alla sconfitta. E, infatti,  il Pci diede vita, ovunque, anche in Sardegna, a un forte movimento di solidarietà con  il popolo cileno e con gli esuli  accolti in Italia. Il gruppo dirigente del Pci non rinunciava, però,  all’analisi rigorosa della situazione cilena. Vi prestava anzi particolare attenzione considerato il valore dell’esperienza di Unidad Popular ascesa al governo attraverso  il voto. Aveva contatti stretti con l’insieme delle forze politiche cilene, compresa la sinistra della democrazia cristiana. Taluni importanti sottintesi del discorso di Berlinguer sul Compromesso storico, diventano più chiari se esaminati con l’ausilio dell’analisi proposta da Pajetta,  condivisa dalla segreteria e dalla direzione del partito

      Ritorno al Compromesso storico e alla   Sardegna. In un rapporto della segreteria regionale sulla situazione sarda di fine 1975  si legge: “Riteniamo di aver fatto uno sforzo per dare applicazione originale alla linea del compromesso storico, attraverso l’intesa delle forze democratiche su una piattaforma avanzata di rilancio dell’autonomia, riuscendo ad ottenere risultati ben visibili”. La linea dell’Alternativa democratica in Sardegna  fu  tradotta nella politica di Unità Autonomistica. Fatto  non unico ma centrale prodotto da questa linea politica, fu l’intesa fra tutte le forze politiche autonomiste formalmente conseguita il 10 ottobre 1975.  Il testo dell’Accordo fu  sottoscritto da Birardi, Raggio e Pirastu per il Pci; da Roich, Soddu e Carrus per la DC; da Mocci, Erdas e Dessanay per il PSI; da Carta per il PSDI; da G.B.Melis e Contu per il Psdaz; da Corona per il Pri; da Medde e da Balletto per  il Pli.  L’ accordo ha quattro punti qualificanti: 1) l’affermazione dell’abbandono  della discriminazione nei confronti del partito comunista, non solo nella fase di elaborazione della politica di programmazione democratica  ma anche in quella di attuazione e controllo, 2) la conferma delle scelte e degli indirizzi contenuti nelle conclusioni della Commissione d’inchiesta sul banditismo e nella legge 268/74 sul secondo Piano di Rinascita; 3) l’impegno a mantener il fronte rivendicativo nei confronti del Governo centrale per quanto riguarda una serie di questioni centrali (PPSS, trasporti, energia, enti locali, mezzogiorno etc); 4) l’attuazione della legge 33 che delinea un assetto nuovo del Governo della Regione e dell’Autonomia fondato sul pluralismo istituzionale : Giunta regionale, Consiglio regionale, Comitato Regionale per la Programmazione, Enti comprensoriali.

        Il partito comunista sardo si proponeva, dunque, di realizzare il rinnovamento profondo della Regione attraverso la cooperazione fra tutte le forze politiche sociali autonomistiche. Un obiettivo di non agevole conseguimento. Il gruppo dirigente era consapevole delle resistenze al cambiamento annidate nella Democrazia cristiana e nello stesso Partito socialista, unitario sì ma anche sensibile, in talune componenti, alla conservazione dell’assetto del  potere. Nel  rapporto summenzionato si scrive  che “ vi sono settori del partito  che non sono pienamente convinti (dell’Intesa). Pesa in modo particolare la situazione economica grave e il fatto che il processo di rinnovamento  procede con lentezza e vi è la preoccupazione che in qualche modo possiamo apparire come corresponsabili di questa situazione”. Qualcosa di molto simile si stava verificando anche  a livello nazionale. La discriminante verso i comunisti sardi cadde solo parzialmente. Nel gennaio 1977 un comunista, Andrea Raggio, fu  eletto plebiscitariamente Presidente del Consiglio regionale; il democristiano Pietro  Soddu  fu eletto Presidente della  Giunta, con l’astensione dei comunisti. Tuttavia i tentativi di costituzione di una Giunta di Unità autonomistica, comprendente i comunisti,  fallirono regolarmente per l’opposizione di componenti decisive della DC . Bisognerà attendere il dicembre del 1980 per la formazione di un governo regionale con la partecipazione piena dei comunisti. Ma questo accadde con una giunta di sinistra e sardista, presidente il socialista Franco Rais, assessore alla programmazione  Andrea Raggio. L’onda lunga di quegli anni si protrasse sino alle elezioni regionali del 1984 quando una coalizione imperniata sul Pci, sul Psi e sul PSd’Az si affermò nettamente e Mario Melis divenne Presidente.

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        Mario Birardi era stato eletto segretario regionale nella VIII Conferenza regionale di organizzazione (Cagliari 13-14 febbraio 1970). Subentrò nell’incarico ad Umberto Cardia. Precedentemente era stato segretario della federazione di Sassari. Alle posizioni di maggiore responsabilità si arrivava sulla base dell’esperienza e dei risultati prodotti. E sempre in forza dei risultati conseguiti nella direzione regionale del partito divenne membro della segreteria nazionale del PCI. L’ operaio tornitore, divenuto dirigente politico maturo, accedeva a uno dei centri nevralgici della politica nazionale.  

      Il Comitato Centrale nella sessione 19/22 ottobre 1976 elesse nella segreteria nazionale Mario Birardi e Anselmo Gouthier, due segretari regionali sperimentati, l’uno in Sardegna e l’altro nel Trentino- Alto Adige. La riunione del Comitato centrale era durata tre giorni. Non era un fatto insolito. Le riunioni duravano quanto necessario per un dibattito approfondito. Quello, inoltre, era un Comitato centrale dedicato a un bilancio dei primi mesi di vita del Governo monocolore Andreotti definito della “non sfiducia” o della “astensione non concordata” del Pci, una posizione che comportava responsabilità senza avere in mano le leve per la trasformazione. Il Paese era in una grave crisi economica. Imperversa l’inflazione. Erano necessarie misure di risanamento che impongono sacrifici alle masse popolari accettabili se basati sull’equità e su riforme economiche e sociali a loro favorevoli. Berlinguer è consapevole dei rischi insiti nella politica dei due tempi. Luigi Longo, presidente, pur d’accordo con il segretario,  sottolinea, in quel Comitato centrale, i primi segnali di incomprensione fra i lavoratori della posizione del Partito.

        L’avvicinamento  del Pci al Governo del Paese era apertamente osteggiato. Sarà la vedova  a ricordare il turbamento di Aldo Moro di ritorno dagli Stati Uniti poco tempo prima del rapimento. Le sue aperture verso i comunisti erano apertamente contrastate dall’amministrazione americana e oggetto di avvertimenti inquietanti. In Italia il blocco delle forze  di centro destra e il  terrorismo di destra e di sinistra oggettivamente convergevano nell’ostacolare il dialogo Moro-Berlinguer e ogni prospettiva del Pci al Governo. Nel febbraio del 1977, la manifestazione della Cgil con  Luciano Lama all’Università di Roma fu impedita dall’assalto violento dei movimenti estremisti di sinistra. I giornali della borghesia applaudirono. Non nascosero la soddisfazione taluni dirigenti socialisti. Sindacalisti della Cisl e della Uil disquisirono e negarono solidarietà alla CGIL. Non vedevano che cosa stava montando. Il neologismo “gambizzazione” diventa tristemente  conosciuto alla gran massa dei cittadini. BR, Prima Linea, Fronte Combattente Comunista e tanti altri gruppi sparavano per azzoppare  dirigenti industriali, forze dell’ordine, giornalisti. Dalla “gambizzazione” si passò rapidamente a sparare per uccidere. In Francia, Sartre e Foucault sono abbagliati: scrivono un manifesto con altri  colleghi per denunciare il clima repressivo in Italia scambiando l’attacco armato alla democrazia, il terrorismo e l’assassinio con il dissenso. L’ambiguità è anche di taluni esponenti della cultura italiana. Eugenio Montale diserta, Leonardo Sciascia non sceglie. Peppino Fiori nella biografia su Berlinguer ricorda il severo commento di Giorgio Amendola, addolorato ma non sorpreso dalla posizione di Montale e Sciascia: “Il coraggio civico non è mai stata una qualità ampiamente diffusa in larghe sfera della cultura italiana”. Il Pci venne dipinto come il partito della repressione. E dunque tutto un variegato mondo di movimenti, indiani metropolitani, ma anche di fiancheggiatori del terrorismo, si diede appuntamento a Bologna per sfidare il Pci in casa. Vi arrivarono in 25mila, ultima settimana di settembre del ‘77,  e trovarono un’amministrazione cittadina accogliente, spazi a disposizione per discutere quanto vogliono, pasti a modesto prezzo politico. “Non saranno questi poveri  untorelli a spiantare Bologna” aveva detto Berlinguer qualche settimana prima, concludendo il festival dell’Unità a Modena, in  un discorso aperto al confronto con qualsiasi forma di dissenso ma fermo nel definire “nuovi fascisti” le formazioni terroristiche.

       L’escalation del terrorismo ebbe il culmine con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro nella primavera successiva. A ripensare al biennio italiano 1977/78 si conclude che le riflessioni sui fatti del Cile non erano una esercitazione politico-culturale buona per un  Paese dell’America Latina. Fatte le dovute differenze c’era molta materia politica buona per l’Italia.

      Aldo Moro fu assassinato dalle BR il 9 maggio del ’78: fu un colpo mortale alla strategia dell’alternativa democratica e del Compromesso storico . Il 15 giugno, il Presidente della Repubblica Giovanni Leone rassegnò le dimissioni reclamate da larga parte dell’opinione pubblica per lo scandalo Lockeed. Il giorno 8 luglio Sandro Pertini, partigiano, socialista, fu eletto Presidente della Repubblica. E’ ben noto che di questa elezione fu protagonista soprattutto il Pci. Pertini era stato   sostanzialmente abbandonato da Craxi e aveva ritirato la candidatura; i comunisti continuarono a lavorare al successo. Fui colpito come milioni di italiani, dalla enigmatica frase di  Alessandro Natta, braccio destro di Berlinguer - “multa renascentur quae jam cecidere, molte cose già cadute rinasceranno” - pronunciata in quei giorni convulsi. Parlava con cognizione di causa. La candidatura di Pertini fu riportata in campo, con successo. La elezione di Sandro Pertini, uomo indipendente e di garanzia in quella tragica stagione, fu il miglior esito della forza acquisita dal Pci con il successo del 1976. “Non era antisocialista Enrico Berlinguer” ribadirà sempre Mario Birardi, indicando a evidente prova, quanto fatto per la elezione di Pertini.  Con  Craxi  vi era una netta divergenza politica, di merito non per pregiudizio.

          In quegli anni così importanti nella storia della Repubblica Mario Birardi era a fianco di Enrico Berlinguer, essendone amico e sostenitore fidato, molto di più di un collaboratore politico, sino alla sua improvvisa e commovente morte nel maggio 1984. Birardi partecipa all’evoluzione della linea politica dalla solidarietà nazionale all’alternativa, resa esplicita dopo il terremoto dell’Irpinia ma maturata nel gruppo dirigente, testimonia, ben prima di quel tragico evento, come presa d’atto del processo involutivo della DC dopo l’assassinio di Moro. All’archivio della Fondazione, Mario Birardi ha consegnato agende, blocchi di carte e quaderni metodicamente ordinati, densi di appunti sulle riunioni della segreteria e degli altri organi del Pci. Birardi, come membro più giovane della segreteria, aveva il compito della redazione dei verbali delle riunioni. Dai suoi appunti venivano estratti  sintesi dattiloscritte: sono dunque una fonte originale e diretta per gli studiosi di un periodo  della storia del Pci e della Repubblica che seppure oggetto di tanti libri, è di divergente interpretazione. Come dichiarato nelle prime righe di questa nota, non si svolgerà tutto il filo del lavoro di Birardi. Brevissimi cenni, dunque, sulla lunga fase romana che copre quindici anni. Nella segreteria si occupa di funzioni di coordinamento del partito. Molto lavoro nel territorio con le organizzazioni regionali e federali. Il rapporto fra la direzione centrale e le organizzazioni territoriali era vivo perché costantemente alimentato da conoscenza e presa in carico dei problemi, sociali o politici che fossero. Il gruppo dirigente centrale doveva conoscere nel dettaglio le realtà territoriali e misurarsi con queste. Questo valeva soprattutto per i componenti la segreteria nazionale. Le carte di Birardi sono zeppe di appunti del lavoro fatto dal nord al sud del Paese. Curerà in particolare la politica verso i ceti medi produttivi, la cooperazione, le piccole imprese e l’artigianato. Di questo settore assume la responsabilità  quando, lasciato l’incarico nella segreteria nazionale, dirige la corrispondente Commissione del Comitato Centrale del Partito. Anche da  Parlamentare – è eletto nel 1983 – dedicherà la sua attenzione soprattutto a queste materie nelle Commissioni Lavoro della Camera prima e del Senato dopo. Sarà infine  amministratore del Partito.

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      Quello di amministratore del Partito è un incarico politico di particolare delicatezza. Si richiedono caratteristiche personali di assoluto rigore morale e professionale e la conoscenza dell’organizzazione, al centro e nei territori. E’ un compito che ti scarica addosso molti problemi, responsabilità e preoccupazioni a fronte di poca visibilità politica. Birardi è stato amministratore  dal 1987 al 1990, anno del XIX congresso (marzo 1990) che, a Bologna, decise di avviare il processo costituente di una nuova formazione politica, conclusosi con il XX e ultimo congresso del Pci,  a Rimini, a cavallo fra il gennaio e il febbraio del 1991. Birardi è stato dunque l’ultimo amministratore del Pci

      Come era il bilancio del Partito in quegli anni? Prendiamo quello del 1988, firmato da Mario Birardi e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale. In cifra tonda le entrate dell’anno valgono  101 miliardi di lire, le uscite 102 miliardi di lire. Lo sbilancio è relativamente modesto ma si cumula con perdite degli esercizi precedenti per circa 30 miliardi di lire. Questi numeri indicano una situazione finanziaria di difficile gestione e che l’attività del partito – sebbene potesse  contare su una fortissima militanza volontaria – richiedeva ingenti mezzi finanziari. Come si finanziava? Il contributo pubblico incideva per il 19,5% del totale delle entrate. Nell’anno 1974 di istituzione del finanziamento pubblico, pesava il 44,5%. Era già in atto avanzato la riduzione del finanziamento pubblico che in tempi successivi è stato sostanzialmente azzerato. Non è stato un bene per la democrazia: questo è il pensiero di Birardi e non solo il suo.  Abusi e ladrocini andavano repressi e non utilizzati per colpire indiscriminatamente l’attività politica. Il Pci difendeva il finanziamento pubblico dei costi della politica ma per  la parte nettamente predominante delle spese,  si autofinanziava. Infatti per circa due terzi le entrate erano costituite dalle quote tessera (mediamente oltre 46 mila lire in quell’anno). Una voce importante erano i versamenti dei parlamentari  che nell’anno ammontano a circa 10 miliardi di lire. Donne e uomini eletti nella Camera e nel Senato versavano, effettivamente, circa il 50% dell’indennità percepita alla Direzione nazionale e, aggiuntivamente, contribuivano al finanziamento delle organizzazioni territoriali, sezioni e federazioni, in modo non simbolico. La stessa regola valeva per i consiglieri regionali. Per esempio nell’anno 1988, i 23 consiglieri comunisti sardi versarono al Comitato  regionale circa un miliardo e centoquarantanove milioni di lire. Era il codice di condotta degli eletti nelle istituzioni. Nel codice era compreso anche il divieto, forte ed effettivo, di dispendiose campagne elettorali personalizzate. Non si vuole concludere che i comunisti eletti nelle istituzioni vivessero da francescani: fatte tutte le sottoscrizioni restavano risorse per vivere nella normalità ben  più che dignitosamente.  Ma, grazie a quel codice di condotta, dalle sezioni di partito queste persone non erano avvertite come appartenenti a una casta. Nel tempo questo codice di condotta è profondamente mutato. Non in meglio.

      Nel 1990 Mario Birardi lasciò l’incarico di amministratore del Partito. L’archivio conserva la lettera di Piero Fassino che lo ringrazia a nome della segreteria per l’attività svolta e garbatamente gli comunica la decisione  sull’avvicendamento nell’incarico. Mario Birardi sa che ogni incarico è a tempo. Darà il suo apporto di esperienza in Sardegna come presidente del PdS-Unione autonoma della sinistra sarda in una fase di costruzione tormenta e a tratti confusa, che avrà comunque importanti traguardi positivi con le vittorie del 1994 della coalizione di centrosinistra  che porterà Federico Palomba alla presidenza della Regione, nelle elezioni amministrative del 1995 e   dell’Ulivo, anche in Sardegna, nel 1996. Nel 1997 sarà eletto sindaco a La Maddalena. Nell’isola l’industria militare è nella stadio della pressoché  totale dismissione. Il futuro è nell’ambiente, nel parco, nel turismo, nella cultura. La sua rete di relazioni personali con le più alte cariche dello Stato e la sua vasta esperienza politica aiutano l’arcipelago nella transizione.

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       Lo ricordo a Carbonia nel giugno del 2002. Lui era da poco cessato dall’incarico di sindaco, io  ero sindaco della città da un anno. Era venuto a parlarci di Enrico Berlinguer nel 18° anniversario della morte.  Andò subito al punto politico rivolgendo all’uditorio la domanda se potesse  avere un senso politico e non solo affettivo ricordare Berlinguer. Birardi mise da parte la  “tentazione di far parlare i sentimenti su un periodo esaltante della storia del Pci” da lui vissuta in prima fila. Definiva inaccettabile  “il velo di silenzio” calato su un leader politico che, amato dalle masse,  fa parte della storia nazionale e che, ovviamente figlio del suo tempo, ha  lasciato “pensieri lunghi”, anticipatori di grandi questioni esplose negli anni novanta e nel XXI secolo. L’analisi berlingueriana della questione morale definita, non in senso moralistico ma in senso tutto politico, come l’occupazione di tutto il potere pubblico da parte dei partiti, ebbe clamoroso riscontro negli anni novanta con la fine della cosiddetta prima repubblica. Rimane una questione sempre attuale e può essere ben compresa e combattuta con le idee di Berlinguer. La necessità di un nuovo ordine mondiale e del superamento dei blocchi in cui il mondo era allora ancora diviso (in mutate forme lo è sempre) andava ben oltre l’idea di un blocco vincitore presente a destra ma anche nella sinistra comunista. Sull’austerità si irrise da più parti quando Berlinguer la prospettò come la necessità  di  un cambiamento profondo dell’occidente opulento e consumista  per poter governare e salvare il mondo. Mario Birardi ci parlò di un Berlinguer irritato (“non appartengo alla compagnia dei Frati Zoccolanti”) con quanti non coglievano la sostanza del suo pensiero e la degradavano a visione pauperistica e antimoderna della società.

   Il “velo di silenzio” ha avuto origine in anni di forte spinta per  il trasferimento del potere nell’esecutivo  e di revisione  del giudizio su Craxi, modernizzatore incompreso da un Berlinguer conservatore anche secondo taluni dirigenti, non di secondo piano, provenienti dal Pci. Memoria corta: gli anni del CAF, Craxi Andreotti Forlani, sono gli anni della esplosione del debito pubblico. Sono gli anni di leggi smaccatamente in favore di Berlusconi che colpiscono il pluralismo dell’informazione, un pilastro delle democrazie occidentali. Cosa c’è di moderno? Negli appunti di Birardi le caratteristiche essenziali della personalità di Enrico Berlinguer sono, al contrario, sintetizzate  “nell’incessante, tormentato impegno di ricerca nello sforzo di aprire vie nuove al suo Partito e ad una società come la nostra, pluralistica, democratica in rapida evoluzione”, accompagnato dal  grande rigore morale e dal  significato altissimo attribuito alla solidarietà.   Birardi parla di Berlinguer, ma, è chiaro, quello è anche lo stile cui lui si è ispirato nella propria attività politica.  

                                                             

      Caprera 4 luglio 2012. L’isola di Garibaldi accoglie il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Si inaugura il Memoriale, atto conclusivo delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Mario Birardi riceve e accompagna il Presidente. L’indomani i giornali riporteranno le parole di Giorgio Napolitano sul Senatore  Mario Birardi. Lo definisce  “l’amico di sempre” e lo riconosce come il principale donatore di cimeli e documenti storici al Memoriale: il migliore suggello a un lavoro ben fatto.

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Tore Cherchi è Presidente della Fondazione Enrico Berlinguer. Ingegnere minerario, iscritto dal 1972 al PCI e poi ai DS e PD, è stato l'ultimo segretario regionale del PCI sardo e il primo dell'Unione Autonoma della Sinistra Sarda/PDS. E' stato parlamentare, sindaco di Carbonia e presidente della provincia di Carbonia ed Iglesias.

Mario Birardi alla manifestazione con Enrico Berlinguer il 15 gennaio 1984 a Cagliari. ©Franco Sotgiu, Cagliari, 1984
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