Da Assisi un appello per la pace

di Enrico Berlinguer.

In occasione del 101esimo anniversario della nascita di Enrico Berlinguer avvenuta a Sassari il 25 maggio 1922, pubblichiamo il Discorso di chiusura della Marcia per la pace, Assisi, 9 ottobre 1983, in Fondazione Gramsci, Archivio del Partito comunista italiano, Fondo Enrico Berlinguer, serie 17 (Politica interna, 1944-1984), busta 26, fasc. 502, pubblicato in G. Nappi, Per un mondo nuovo di pace e di giustizia. Dedicato a Enrico Berlinguer. Con una selezione dei suoi testi, in «Infiniti Mondi», marzo 2022, numero speciale, pp. 189-202.

Perché questa manifestazione e questa marcia sono state organizzate dal nostro partito e dalla Fgci proprio qui, ad Assisi, in Umbria? Perché l’Umbria e gli umbri hanno una antica sensibilità e una tradizione consolidata ed esemplare di iniziative per la pace.

Nella vostra terra, qui, tra Perugia e Assisi – lo ricordiamo bene –, ha ripreso più volte, a partire dal dopoguerra, il movimento pacifista italiano: e ogni volta, da questi paesi, da queste contrade esso ha inaugurato una nuova fase di lotta. I grandi raduni del Lunedì di Pasqua all’inizio degli anni cinquanta; la Marcia da Perugia ad Assisi nel settembre ’61; quelle del ’78 e dell’81. Ecco alcune fra le più importanti tappe che scandiscono la storia del movimento di opposizione alla guerra e al riarmo in Italia.

In quelle manifestazioni, si sono schierate e hanno lottato le forze più varie della società e della cultura italiana: comunisti, socialisti, forze del mondo cattolico, e, qui in Umbria, quella corrente dalla ispirazione etica e civile originale, venata da una sua laica, missionaria religiosità che Aldo Capitini ha rappresentato al più alto livello e che è anch’essa patrimonio inestimabile della cultura italiana. Questa storia particolare dell’Umbria nella lotta per la pace è stata ed è dunque il frutto di un grande sforzo unitario teso a superare vecchie incomprensioni e vecchi steccati, a ricercare occasioni di confronto e di collaborazione tra le forze popolari, a coinvolgere sempre nuove energie intellettuali, ad esprimere le aspirazioni e le speranze di grandi masse femminili e giovanili.

Anche questo è stato uno dei modi con cui l’Umbria sta e vive nella storia e nella vita presente della nazione. Un’idea e una pratica di convivenza e di rispetto della dignità tra gli uomini, una volontà di progresso e di trasformazione, espressa in tante lotte del movimento operaio e contadino, si sono incontrate e fuse in questa città e in questa regione con gli ideali e le iniziative di pace. Nel 1961 la marcia che promosse Aldo Capitini[1] segna una svolta nella mobilitazione pacifista italiana per l’ampiezza del consenso popolare, per la presenza di forze politiche e intellettuali di estrazione molto diversa e per la eccezionale presenza dei giovani. Con quell’iniziativa, si manifestò una più ampia consapevolezza delle condizioni del mondo contemporaneo che influenzò la cultura e la politica italiana degli anni sessanta. Quando si svolge la seconda marcia della pace Perugia-Assisi, nel settembre ’78, non era ancora stata presa dalla Nato la decisione di installare in Europa circa 500 nuovi missili nucleari, né il confronto tra le grandi potenze aveva raggiunto i toni aspri e pericolosi di oggi.

Era però già evidente il deterioramento della distensione con un visibile riflesso nell’estensione dei conflitti locali e nella ripresa della corsa al riarmo. Da allora la situazione del mondo è venuta aggravandosi e la coscienza che ne ha preso la gente ha dato luogo a grandi movimenti pacifisti in Italia, in Europa e negli Usa.

La terza Marcia Perugia-Assisi, nel settembre dell’81, interpretò lo spirito di opposizione alla guerra, il rifiuto del dispiegamento di nuove armi nucleari a Est e a Ovest, la richiesta di atti concreti dei governi in favore della pace e del disarmo. In quella marcia si manifestarono il consenso e la partecipazione entusiastica di decine di migliaia di persone. Così è anche oggi, con questa nuova marcia e questa grande assemblea di popolo, che si svolgono alla vigilia delle manifestazioni per la pace che si terranno a Roma e in altre capitali europee il 22 ottobre.

Ascoltate ora queste parole pronunciate da questa Rocca Maggiore di Assisi, a conclusione della Marcia del 1961: «Il tempo è maturo per una grande svolta del genere umano. Il passato è passato, basta con le torture, basta con le uccisioni per qualsiasi motivo; basta con il pericolo che enormi forze distruttive siano in mano alla decisione di pochi uomini… da questo orizzonte aperto, infinito e fraterno, sacro da più di sette secoli ad ogni essere che nasce alla vita e alla compresenza di tutti, scenda una volontà intrepida e serena di resistere alla guerra, di propositi costruttivi di pace»[2].

Sono parole di Aldo Capitini. Ebbene, io credo che in esse ancora oggi si ritrovi un raccordo tra la storia antica dell’Umbria, lo spiritualismo di Francesco Bernardone, il poverello di Assisi, e di Jacopone da Todi – fratelli in pace e in povertà, e in radicale polemica con il loro tempo – e la realtà moderna del movimento operaio e la religiosità laica e riformista di Capitini.

Assisi è centro della cristianità francescana; ma essa, insieme alle intensissime attività delle strutture e delle organizzazioni cattoliche, ecclesiali e laicali, è stata ed è un punto di riferimento per le forze e le idee di pace e giustizia in tutto il mondo. «Buddha, Cristo, Francesco e Gandhi»: così era scritto in un cartello alla marcia del ’61.

Non sarò certo io a dire qui, a voi, il significato storico e attuale del francescanesimo. Ma non credo vi sia dubbio che Francesco e lo spiritualismo francescano rappresentino un punto di «crisi», cioè di passaggio, nella vita della cattolicità.

«Il Signore mi ha rivelato essere suo volere che io fossi un novello pazzo del mondo», racconta la Legenda perusina[3]. E tra gli aspetti della «follia» di Francesco c’era la contestazione radicale e intransigente della guerra, della violenza, oltreché della proprietà e del potere. Di fronte alla gerarchia ecclesiastica, fino al vescovo di Roma, Francesco contestava la «ragionevolezza» della guerra, delle crociate; e non soltanto cercò di convincere il papa Innocenzo iii e i crociati a non intraprendere la guerra, ma una volta che questa esplose, e mentre in Terra Santa infuriava la battaglia, Francesco – che gli storici arabi descrivono come uomo di piccola statura e senz’armi – superò le linee e si recò nel campo saraceno, dal sultano, e predicò la pace in nome di Cristo e degli uomini.

Era una rottura profetica netta e totale, un rifiuto secco della pretesa «ragionevolezza», della accettabilità della cosiddetta «guerra giusta» o «guerra santa»; ed era, al tempo stesso, l’affermazione integrale del primato della pace e della ricerca del dialogo e dell’accordo con tutti gli uomini di buona volontà che è indispensabile perseguire ad ogni costo perché la pace sia garantita.

Questa lezione di Francesco è stata ripresa nei nostri tempi dal Concilio Vaticano ii. In una delle costituzioni del Concilio, la Gaudium et Spes, si dice: «La corsa agli armamenti è una delle piaghe più gravi dell’umanità e danneggia in modo intollerabile i poveri. E c’è molto da temere che, se tale corsa continuerà, produrrà un giorno tutte le stragi delle quali già va preparando i mezzi»[4].

Questi concetti affermati dai padri conciliari indicano ai cattolici un impegno imperativo che si ispira a quella provvida «follia» di Francesco, che è invece vera saggezza e vera bontà perché contrasta con la faciloneria dei buonsensai, seguendo la quale si giunge ad accettare che tutto vada come va, che vengano allestite apparecchiature militari e belliche sempre più micidiali, spingendo il mondo verso la vera e suprema follia.

I recenti appelli di pace dei francescani in Brasile e dei francescani in Assisi e l’invito a Reagan e ad Andropov di incontrarsi in questa città per ritrovare un accordo di pace, esprimono anch’essi la contemporaneità e la continuità del messaggio universale del santo di Assisi.

In profonda rispondenza con questa realtà proprio dall’Umbria si sviluppa l’iniziativa dei Comuni, delle Province e della Regione, che svolgono un ruolo prezioso e originale di promozione e di sostegno a favore della lotta pacifista. Da questo retaggio storico e culturale dell’Umbria e dalla sua presente realtà politica e sociale viene in luce l’orizzonte e l’ispirazione universalista del movimento per la pace, e, insieme, il suo carattere pluralista, per la ricchezza e l’ampiezza delle voci e delle forze che lo compongono in Italia e in Europa. Di fronte a questa realtà, dire che si tratta di un movimento strumentale o a senso unico o addirittura che esso sia dovuto all’opera di infiltrazioni straniere è una pura sciocchezza e magari anche indice di cattiva coscienza. Altra cosa è domandarsi in buona fede, come fanno tante persone, se un movimento per la difesa della pace sia veramente necessario e se esso possa davvero servire a qualcosa.

È una domanda che sorge oggi in conseguenza di due convinzioni abbastanza diffuse, ma che a noi sembrano profondamente sbagliate e nocive. Secondo la prima si giudica impossibile che scoppi una terza guerra mondiale dato che la potenza distruttiva delle armi che vi sarebbero impiegate è giunta a tali livelli che la guerra equivarrebbe alla distruzione della civiltà umana e di gran parte della popolazione terrestre. Da questa constatazione indubbiamente veritiera sul carattere che avrebbe una guerra nucleare si trae la conclusione sbagliata che ad essa non si può giungervi mai perché la saggezza dei responsabili degli Stati alla fin fine prevarrà.

Le cose, purtroppo, non stanno così. Gli sviluppi politici, militari e tecnologici sono già arrivati a un punto in cui la guerra nucleare può realmente scoppiare. Gli eventi che possono accenderla possono essere diversi e non tutti possono rimanere sotto controllo. Può esservi un errore di calcolo politico. In un clima internazionale avvelenato dalla diffidenza, nel quale le grandi potenze e altri Stati si sentono reciprocamente minacciati da un attacco nucleare distruttivo, in pochi minuti, dell’intero loro potenziale militare ed economico, può accadere che uno Stato, pensando di stare per essere colpito, decida di sferrare esso il primo colpo illudendosi che lo Stato da cui si sente minacciato, colto di sorpresa, non sia in grado di reagire in tempo. Può esservi anche un errore nei calcoli tecnici, errore sempre più probabile nell’era in cui gli armamenti sono regolati da automatismi elettronici super sofisticati.

Ho letto sull’«Unità» di ieri il resoconto di una lettera che il senatore americano Hatfield, promotore insieme a Kennedy del movimento per il congelamento di tutte le armi nucleari, ha inviato ai propri elettori. Nella lettera viene immaginato uno scenario che sembra di fantascienza ma che non è escluso possa verificarsi nella realtà, se si considera che in 20 mesi 147 volte i cervelli elettronici Usa hanno segnalato per errore un attacco nemico che non esisteva, cosa che prevedibilmente può essere accaduta anche in quelli dell’Urss.

Ecco lo scenario immaginato dal senatore Hatfield: «Improvvisamente, una notte, il sistema automatico di avvistamento sovietico registra la partenza simultanea di centinaia di missili americani dalle loro basi a terra eda quelle in mare. Più di 5000 testate si stanno dirigendo, a velocità folle e con straordinaria precisione, sugli obiettivi sovietici. I computer impiegano attimi preziosi per valutare entità e direzione dell’attacco. Altro tempo passa prima che vengano buttati giù dal letto i dirigenti politici che possono ordinare il contrattacco. Dieci minuti dopo la situazione è questa: entro trecento secondi i missili Usa raggiungeranno i loro obiettivi, distruggendo interamente il potenziale strategico sovietico. Ciò significherebbe l’asservimento dell’Urss all’Occidente almeno per qualche secolo. Non c’è tempo per controllare bene il funzionamento del sistema d’allarme. I dirigenti di Mosca ordinano la rappresaglia totale. Dopo qualche attimo, arriva l’informazione corretta: non c’è stato alcun attacco americano. A causa dell’enorme sovraccarico, i computer hanno fatto corto circuito, segnalando qualcosa che non è mai avvenuto. I missili sovietici, però, non possono essere richiamati indietro. Gli americani li hanno già individuati e a Washington si ripete la stessa sequenza di Mosca. Inevitabile, la decisione della rappresaglia. È cominciata la guerra nucleare»[5].

Un altro esempio, portato da Oskar Lafontaine, membro della Direzione della Spd e sindaco di Saarbrücken, è il seguente: «Il 9 novembre 1979 – racconta Lafontaine – un errore di programmazione del computer statunitense fece scattare un falso allarme, secondo cui l’Urss con i suoi missili installati su sottomarini aveva sferrato un attacco contro il continente americano. Secondo informazioni riferite dalle stesse fonti statunitensi, ci vollero sei minuti per accorgersi che si era trattato di un falso contatto elettronico. Solo a quel punto il meccanismo del contrattacco nucleare, entrato in funzione automaticamente, poté essere bloccato. Sei minuti. Non sono moltissimi, ma sono esattamente il tempo che, secondo le stime, impiegherebbe il Pershing-2 per raggiungere i suoi obiettivi nell’Urss partendo dalle basi che la Nato vuole installare in Germania. Che cosa accadrebbe, una volta installato questo tipo di missile, se un giorno il sistema di avvistamento sovietico incappasse nello stesso infortunio occorso a quello americano nel novembre ’79? Se i dirigenti moscoviti sapessero di non poter attendere i minuti necessari ad accertare con sicurezza che non si tratta di un falso allarme e dovessero decidere la loro risposta prima? Queste domande – scrive Lafontaine – le rivolgo sempre nelle riunioni e negli incontri all’Est e all’Ovest. Nessuno mi ha mai dato una risposta»[6].

Ma alla guerra mondiale si può giungere anche per altre cause. Essa può essere provocata, ad esempio, da un coinvolgimento diretto, crescente e irreversibile, delle due massime potenze in una delle tante guerre o conflitti locali in corso in vari continenti, come quello nel Medio Oriente e in quel paese che è il Libano, dove anche le forze armate italiane sono impegnate.

Vi è stata ora una tregua che ci auguriamo sia seguita da un accordo di riconciliazione nazionale che apra la via al ritiro di tutti gli eserciti stranieri e alla affermazione dell’unità, indipendenza e integrità del Libano. Ma la stessa tregua, come ci ha spiegato Walid Jumblatt nell’incontro dell’altro ieri[7], è precaria. Il conflitto può riaccendersi ed estendersi. E non dimentichiamo che davanti alla costa libanese sono schierate a poca distanza le une dalle altre navi americane e navi da guerra sovietiche. Come si vede dai casi che ho citato, è un errore ritenere che una nuova guerra mondiale sia impossibile solo perché le sue conseguenze provocherebbero un’immane catastrofe. Ma vi è anche un errore opposto: ritenere che il corso preso dalle relazioni internazionali e dalla sofisticazione degli armamenti, sia all’Ovest che all’Est, renda la guerra inevitabile, fatale.

È una posizione che la coscienza umana rifiuta perché significa rinuncia alla vita per sé e per le generazioni future, rassegnazione al fatto che l’umanità non abbia più un domani. Ed è una posizione che conduce alla passività mentre è del tutto possibile mobilitare le forze necessarie a evitare che il genere umano vada verso la sua estinzione.

Voi siete qui proprio perché credete giustamente che la pace possa essere salvata e lo dite con i vostri volti, con le vostre bandiere, con la vostra volontà di continuare nell’impegno e nelle battaglie che dovremo affrontare per difendere la pace. E come voi pensano o possono essere condotti a pensare milioni di uomini, di donne, di giovani in Italia e in tutto il mondo. E questa è una forza immensa che può imporsi. Per salvare la pace, si deve operare con profondità e a lungo, su diversi terreni, per rimuovere le cause che possono portare alla guerra.

Quali sono le cause da rimuovere?

1) gli squilibri e le disuguaglianze economiche, specie quelle tra il Nord e il Sud del mondo, lavorando per un nuovo e giusto ordine economico internazionale, contro la fame e la miseria che affliggono tanta parte dell’umanità e per un nuovo tipo di sviluppo nei paesi industrializzati;

2) l’esistenza di conflitti tra gli Stati, adoperandosi per la loro composizione pacifica attraverso un negoziato che riconosca il diritto di ogni nazione alla sua indipendenza;

3) la rigidità dei blocchi, lavorando per il loro progressivo superamento;

4) la corsa agli armamenti, con l’obiettivo di giungere fino alla messa al bando totale di qualsiasi arma atomica e nucleare;

5) l’inquinamento delle coscienze con sentimenti di violenza, di odio nazionale o di razza, e con fanatismi di ogni stampo, che vanno combattuti con l’educazione alla pace e con la pratica della conoscenza, della comprensione e della solidarietà tra i popoli e fra tutti gli esseri umani.

Sono tutti terreni e obiettivi indispensabili da perseguire instancabilmente per costruire la pace, una pace non precaria, ma solida, duratura, che, per essere tale, deve essere fondata sulla giustizia.

Ma oggi c’è un obiettivo che è impellente più di ogni altro e che si evidenzia in tutta la sua tremenda importanza: evitare che vengano compiuti nuovi passi nella corsa agli armamenti nucleari, ottenere intanto il rinvio dell’installazione di nuovi missili americani a Comiso e in Europa e ottenere, in pari tempo, che vengano smantellati e distrutti i missili sovietici che risultassero eccedenti a quelli occidentali nel teatro europeo, conteggiando, evidentemente, anche quelli francesi e inglesi (cosa su cui concordano anche i compagni comunisti francesi, come mi ha detto Marchais nei colloqui avuti con lui nei giorni scorsi).

Non starò qui a fare l’analisi delle diverse posizioni e proposte che si sono manifestate negli ultimi tempi da parte dei diversi Stati, governi e partiti. Il presidente del Consiglio Craxi, nella sua risposta di ieri ad Andropov, afferma che il sistema degli euromissili inglesi e francesi è indipendente e non è collegato con il dispositivo strategico americano[8]. Egli ignora, forse, che 64 missili inglesi sono collocati su sommergibili americani? Come si vede, un collegamento vi è. Mentre si sta avvicinando la scadenza prevista per la chiusura delle trattative di Ginevra si fa avanti una linea che mi sembra quanto mai pericolosa. Si dice, in sostanza: se a Ginevra non si concluderà per la data stabilita, si cominci a installare nuovi missili americani in Europa, tanto il negoziato per la riduzione degli armamenti potrà continuare anche dopo. Questa posizione, contraddittoria in termini, è anche illusoria e ingannevole perché non è possibile pensare che un negoziato che ha per scopo la riduzione degli armamenti al livello più basso si concluda positivamente se nel frattempo si compie un atto che spinge in una direzione esattamente opposta, un atto, cioè, che provoca una nuova rincorsa al riarmo. Si ritiene che le proposte di riduzione dei propri missili avanzate dall’Unione Sovietica non siano sufficienti a ristabilire un pieno equilibrio tra i due blocchi per questo tipo di armi? Si facciano altre proposte, ma escludendo l’installazione dei nuovi missili, perché questa non è una spinta alla riduzione dei missili ma una spinta al loro aumento. Oltretutto la famosa doppia decisione presa a Bruxelles nel 1979 prevedeva che, in caso di accordo, non si sarebbe proceduto all’installazione di nuovi missili, mentre adesso sembra che si voglia installarli a ogni costo.

La nostra proposta, com’è noto, è che se i negoziati di Ginevra non daranno luogo entro la scadenza prevista a un accordo, essi siano prolungati fino a concludersi positivamente entro un tempo ragionevolmente concordato. È la stessa posizione di alcuni Parlamenti, governi e partiti di paesi appartenenti alla Nato, fra i quali numerosi partiti socialisti e socialdemocratici. Ed era questa la posizione che Craxi aveva assunto davanti al nostro Congresso del marzo scorso, al Congresso dell’Internazionale socialista in Portogallo e durante la campagna elettorale quando aveva detto che bisognava prolungare il negoziato di Ginevra per tutto il tempo necessario a raggiungere un accordo. Ma da presidente del Consiglio egli ha cambiato posizione. Perché?

Vi è stata una proposta del presidente del Consiglio della Grecia, paese della Nato, di prorogare per sei mesi i negoziati di Ginevra. Perché si è respinta persino questa proposta avanzata dal socialista Papandreu?

L’altra proposta che noi comunisti abbiamo avanzato è che a Ginevra, dove si sta discutendo delle sorti dell’Europa e della vita degli europei, i negoziatori non siano più solo i rappresentanti delle due massime potenze, ma debbano essere chiamati al loro fianco i rappresentanti degli Stati europei, dell’Est e dell’Ovest; e questo ci pare tanto più indispensabile se, come sembra, tra i negoziatori sovietici e americani non si riesce a trovare l’accordo in tempo utile.

Lanciammo questa proposta a Reggio Emilia il 18 settembre[9]. Fino a questo momento né il governo né alcun partito della maggioranza ha risposto. Eppure si tratta di una proposta che, anch’essa, ci sembra del tutto ragionevole e costruttiva e rispondente agli interessi non solo del nostro paese, ma di tutti i paesi europei. Quel che è certo è che questo complesso di argomenti e di proposte noi lo porteremo con forza in Parlamento, nel quale la questione dell’installazione dei missili deve essere nuovamente affrontata e dibattuta a fondo.

Come vedete, noi comunisti italiani abbiamo posizioni e facciamo proposte che sono tutte improntate alla convinzione che gli Stati, tutti gli Stati interessati devono scegliere la via del negoziato e praticarla con tutta la perseveranza e la pazienza necessarie. Trattino, dunque, gli Stati: non cedano alla facile lusinga della intransigenza, della sfida, della provocazione; ma, nel contempo, i popoli facciano sentire la loro voce, il loro peso, le loro volontà di vita.

È la parola d’ordine di questa nostra manifestazione: trattino gli Stati, parlino i popoli. Non ci può essere infatti né governo delle cose e degli eventi, né trasformazione della realtà, né, tanto meno, effettiva rappresentanza degli interessi della gente semplice senza l’impegno delle masse stesse, senza il loro intervento sui poteri pubblici nazionali, europei, mondiali. Si devono chiamare gli uomini e le donne del nostro paese e di tutti i paesi a guardare in faccia il pericolo che ci sovrasta e, al tempo stesso, a individuare e a far scendere in campo le grandi immense energie positive, costruttive e non distruttive che esistono in Italia e nel mondo. Ma anche questa è una lotta: è una lotta civile e culturale. Infatti, oggi sono tanti, troppi, coloro che vogliono accorciare questa visuale, rinchiudersi nel proprio piccolo, nel giorno per giorno, non vedere i grandi problemi e le prospettive del mondo.

È a ciò che bisogna reagire con una mobilitazione di forze che sia al tempo stesso pluralista e universalista, e perciò unitariamente raccolta attorno a quell’imperativo comune, universale e pluralista, che dice: prima di tutto la pace.

Il prossimo 22 ottobre in Italia, a Roma, in altri paesi europei, negli Usa, in Giappone, in Australia, scenderanno in campo masse immense di popoli i quali, al di sopra delle differenze ideologiche, religiose, sociali, culturali e politiche, si pronunceranno per il negoziato, per il disarmo, per la pace. La diplomazia dei popoli dovrà tentare di invertire la rotta seguita attualmente dalla diplomazia degli Stati.

Il governo italiano, tutti i governi europei ma anche le massime potenze dovranno avvertire l’ammonimento dei popoli del mondo. Questo movimento è assolutamente non unilaterale e non monolitico sul piano politico e ideale e sul piano nazionale e continentale, ma proprio per questo esso è forte e impetuoso come un fiume nel cui alveo confluiscano acque da tante sorgenti. Esso è oggi una grande speranza, e non solo perché con la sua forza mantiene aperti margini di soluzione al problema degli euromissili, ma perché è una concreta, possente forza civile e umana, politica e religiosa, capace di scuotere ogni indolenza e ogni ignavia, e di conquistare l’umanità ad agire per dare agli Stati, ai governi, ai partiti nuovi traguardi di pacifico sviluppo, nuove finalità per l’uomo. Noi comunisti italiani siamo e vogliamo essere parte di questo movimento, stiamo in esso con le nostre idee e proposte, alle quali non rinunciamo. Ci stiamo con le tante inconfutabili prove della autonomia di giudizio e di azione che abbiamo dato verso tutti gli Stati e partiti, e con il prestigio internazionale che ci siamo conquistati con la nostra serietà e con la nostra coerenza.

Abbiamo fiducia e facciamo appello a quanti sono diversi da noi, ma che insieme a noi e come noi vogliono la pace e si muovono verso queste mete di sviluppo, di giustizia, di fratellanza tra i popoli. Ecco lo spirito con cui vi rivolgiamo da questa Rocca di Assisi l’appello a partecipare il 22, a Roma, alla manifestazione nazionale unitaria per la pace che dirà a tutti i popoli della Terra qual è la speranza e la volontà di lotta del nostro popolo[10].

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Le elezioni politiche del giugno 1983 vedono una sostanziale tenuta del Pci (che dal 30,04% passa al 29,9%), a fronte di una perdita di oltre 5 punti percentuali da parte della Dc e di un rafforzamento del Psi, che ottiene l’11,4%. A luglio il segretario socialista Bettino Craxi riceve l’incarico di formare il nuovo governo – un pentapartito Dc-Psi-Pri-Psdi-Pli, ma anche il primo esecutivo presieduto da un esponente socialista. Intervenendo alla Camera il 10 agosto nel dibattito sulla fiducia, Berlinguer torna sulla questione degli euromissili, ribadendo la contrarietà del Pci (che d’altra parte non vuole «un solo SS-20 [sovietico] in più rispetto ad un equilibrio sul teatro europeo che sia fondato sulla sicurezza reciproca») e manifestando una viva attenzione verso la proposta del leader sovietico Andropov «di ridurre i vettori e le testate dei missili a medio raggio SS-20 al numero complessivo dei sistemi nucleari autonomi della Francia e dell’Inghilterra e di ridurre a un numero pari gli aerei da bombardamento nucleare della Nato e del Patto di Varsavia»; sebbene la linea del Pci sia scevra da «unilateralità» e non abbia «nascosto critiche alle posizioni sovietiche» – afferma il segretario comunista – l’iniziativa di Andropov «cambia notevolmente il quadro», costituendo «una base utile per l’ulteriore fase del negoziato». Berlinguer, dunque, confida nel fatto che i negoziati in corso a Ginevra possano avere un esito positivo, ed esorta il governo italiano a svolgere un ruolo in tal senso.

Alla pressione politica e parlamentare il Pci continua peraltro ad affiancare una forte mobilitazione di massa e un confronto a tutto campo nella società. L’8 ottobre Berlinguer si reca ad Assisi, su invito di padre Vincenzo Coli, «custode» del Sacro Convento, che due mesi prima ha scritto a Reagan e ad Andropov per invitarli ad Assisi a discutere di pace e disarmo. La visita del segretario comunista, che pranza con i frati francescani e dialoga con loro nella sala del refettorio, ha un forte impatto anche sul piano simbolico.

Il giorno seguente, si svolge la Marcia per la pace promossa da Pci e Fgci sulla scorta di quelle organizzate negli anni cinquanta e soprattutto della Marcia Perugia-Assisi ideata da Aldo Capitini nel settembre 1961 e replicata poi in anni più recenti. Il Pci intende così riallacciarsi a una tradizione pacifista più ampia di quella comunista, dialogando con la cultura laica e nonviolenta cui si ispirava Capitini e con il pacifismo di stampo cattolico. Nel discorso conclusivo della manifestazione di Assisi, Berlinguer sottolinea «il significato storico e attuale del francescanesimo» e il messaggio pacifista del Concilio Vaticano II, ma si collega anche alle prese di posizione contro la guerra e in favore della distensione che vanno emergendo nel mondo politico occidentale, dal senatore statunitense Hatfield, promotore insieme a Kennedy del movimento per il congelamento di tutte le armi nucleari, al dirigente della Spd Oskar Lafontaine. Il leader del Pci ribadisce infine la proposta che, nei negoziati di Ginevra, ai rappresentanti delle due superpotenze si aggiungano «i rappresentanti degli Stati europei, dell’Est e dell’Ovest», direttamente interessati dalla questione della presenza dei missili nucleari sui loro territori. (Alexander Höbel)

Per gentile concessione di Alexander Höbel dal libro “Enrico Berlinguer La pace al primo posto, scritti e discorsi di politica internazionale (1972-1984)”, Donzelli Editore, 2023

Foto Assisi, Prato della Rocca, 9 Ottobre 1983


[1] Alla marcia parteciparono fra gli altri dirigenti e intellettuali del Pci come Pietro Ingrao, Mario Alicata, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Renato Guttuso e Franco Calamandrei, esponenti del mondo della cultura e della politica come Arturo Carlo Jemolo, Guido Piovene, Italo Calvino, Ernesto Rossi, Norberto Bobbio, Ferruccio Parri. Il Pci aderì ufficialmente, anche con una lettera di Togliatti a Capitini. Cfr. «l’Unità», 24 settembre 1961.

[2] Il discorso di Capitini è ora nel volume In cammino per la pace. Documenti e testimonianze sulla Marcia Perugia-Assisi a cura di Aldo Capitini, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2022.

[3] Cfr. Compilatio Assisiensis dagli scritti di fr. Leone e compagni su S. Francesco d’Assisi, a cura di M. Bigaroni, Porziuncola, Assisi 1975.

[4] Il testo della Gaudium et Spes, promulgata da papa Paolo VI il 7 dicembre 1965, è reperibile anche in rete: <https://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19651207_gaudium-et-spes_it.html>.

[5] Il testo di Hatfield è riportato da P. Soldini, Improvvisamente, una notte il computer dichiara la guerra, in «l’Unità», 8 ottobre 1983.

[6] Ibidem.

[7] Sull’incontro tra Berlinguer e Walid Jumblatt, leader del Partito socialista progressista e della comunità drusa del Libano, cfr. G. Lannutti, Sul Libano Jumblatt a colloquio con Berlinguer, in «l’Unità», 8 ottobre 1983. In Libano l’Italia era impegnata dal settembre 1982 in un’operazione di peacekeeping (la missione «Italcon»), condotta nel quadro della Forza multinazionale in Libano, comprendete anche Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna.

[8] Cfr. La risposta a Andropov. Mosca blocca i negoziati, in «La Stampa», 9 ottobre 1983; P. Soldini, Craxi risponde a Andropov. Sui missili solo dei «no», in «l’Unità», 9 ottobre 1983.

[9] Berlinguer si riferisce al suo discorso conclusivo al Festival nazionale dell’Unità, tenuto appunto a Reggio Emilia il 18 settembre 1983. Del discorso sono reperibili in rete due registrazioni audio, quella di un militante del Pci, Giuseppe Ciari (<https://berlinguervitavivente.it/2017/09/22/reggio-emilia-1983-lultimo-comizio-alla-festa/>), e quella di Radio radicale (<https://www.radioradicale.it/scheda/66857/festa-dellunita-comizio-del-segretario-del-pci>).

[10] Sulla manifestazione del 22 ottobre, che vedrà sfilare a Roma due immensi cortei con circa un milione di persone, cfr. M. G. Maglie, Straordinaria marea pacifista, in «l’Unità», 23 ottobre 1983.

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