Le parole gli si spezzano in bocca, vacilla

di Giuseppe Fiori.

Arriva a Padova verso mezzogiorno, proveniente da Genova. Parlerà in serata, alle 21.30, in piazza della Frutta. Prima deve scrivere le risposte a nove domande di Lamberto Sechi, direttore del «Mattino di Padova», e vedere una delegazione di operai della Galileo.

E' irritato. Ha saputo da Roma di un'altra prova di forza del governo, che al Senato, sul decreto-bis, ha posto addirittura due questioni di fiducia, la quinta e la sesta dall'inizio della vicenda: il Parlamento obbligato a timbrare il decreto com'è.

Comincia a scrivere l'intervista a pomeriggio inoltrato. Quarta domanda: «Il partito socialista è ancora un partito di sinistra col quale il Pci potrebbe trovare nel breve termine un'intesa, sia pur limitata?». Risposta: «Rilasciare diplomi o affibbiare etichette ai partiti è un vizio non nostro ma di altri. I giudizi che diamo dei partiti si riferiscono sempre ai loro obiettivi programmatici, alla loro coerenza con la propria peculiare ispirazione ideale e soprattutto ai loro comportamenti e atti concreti. Se si applica al Partito socialista italiano di oggi questo nostro metodo e criterio di giudizio, non prevenuto e non fazioso, si dovrà riconoscere che l'azione del Psi — nel governo e in Parlamento — non è certo orientata a difendere gli strati sociali più deboli, a basso reddito, sfruttati, emarginati (i senza casa, i pensionati, le donne, i giovani). Anzi, il provvedimento più importante del governo a presidenza socialista è — per suo stesso vanto — il decreto che taglia d'autorità la scala mobile, mentre nessun provvedimento concreto è stato preso per colpire l'evasione fiscale, le attività speculative e le rendite puramente finanziarie: è la classica linea dei sacrifici a senso unico. Inoltre, rispetto agli altri partiti socialisti e socialdemocratici dell'Europa occidentale, il Psi si differenzia per essere l'unico che considera strategica la sua alleanza al governo con partiti conservatori e di centro e, dal governo, contrasta attivamente la forza più rappresentativa della sinistra italiana, il Pci. Questi sono i fatti di questi mesi. Non voglio davvero escludere, e anzi mi auguro, che i fatti del futuro parlino in modo diverso».

L'attendono gli operai della Galileo, sospende l'intervista, esce, si fa sera. Un salto da Sechi in redazione. Come d'abitudine, niente cena. Va in piazza della Frutta, per il comizio.

Accende una sigaretta. Sarà l'ultima. Lo chiamano. Tocca a lui.

Appare combattivo: «Il governo ha posto la fiducia al Senato sul decreto che taglia la scala mobile. Ma a chi chiede la fiducia il governo Craxi? La chiede a una maggioranza squassata, al cui interno ci si scambiano accuse tanto roventi che mai l'opposizione — pur accusata di settarismo — aveva pensato di usare [...]. Dagli avvenimenti di questi mesi, giorni e ore emerge un ben miserevole quadro del personale governativo che in questo momento ha in mano la guida dell'Italia: un personale che va dimostrando la più assoluta mancanza di serietà, di decoro, di decenza [...]. A questo degrado della vita pubblica, noi comunisti, come grande forza nazionale, pretendiamo che si ponga fine [...] I comunisti potranno avere mille difetti, ma nessuno che sia onesto potrà loro negare la serietà, l'attaccamento alla democrazia, l'impegno nella difesa delle istituzioni...».

Le parole gli si spezzano in bocca, vacilla, il maxi teleschermo dietro il palco ingrandisce una faccia stravolta per smorfie di dolore.

S'annunzia bufera. Tutt'intorno a Padova piove. Qui lampi.

«Ero in piazza a sentire il comizio — dirà giorni dopo il primario pneumologo Giuliano Lenci —. Conoscevo Enrico da anni [...]. Lo sentivo parlare persuasivo come sempre. Poi mi accorgo che c'è qualcosa che non va. Non è spedito come al solito, le parole difficili gli inceppano la pronuncia. Vedo che a un tratto si aggrappa al leggio, come colto da capogiro. Guardo l'ora istintivamente, il mio orologio segna le 22.25. Vorrei intervenire. Ma Tatò, che gli è accanto, mi precede». Ricorderà Tatò: «Anch'io mi ero reso conto che Enrico non stava bene. A tratti balbettava, perdeva il filo del discorso. Gli dico smetti, chiudi così! E lui, secco: taci!». Molti gli parlano e gli dicono: «Smetti, smetti!».

Il professor Lenci s'affretta verso il palco e vi sale appena in tempo per sorreggerlo: «Ha la fronte imperlata di sudore, ci metto una mano sopra, è gelata. "Ho voglia di vomitare", mi dice. "Vomita", lo esorto, e perché si senta più a suo agio lo metto di spalle alla folla. Vomita due volte. "Mi ha fatto male la cena di ieri sera a Genova", dice. Sembra più sollevato. Mentre scende i gradini del palco, saluta la folla con la mano». L'accompagnano al "Plaza".

Lenci: «Sono in macchina, dietro, accanto a Berlinguer. Gli chiedo “Hai dolore?”. Lui risponde no. Il polso è buono. Lui si fa una specie di autodiagnosi: un fatto gastrico» . Tatò l'aiuta a mettersi a letto, il professor Lenci gli fa la prova di Babinski, c'è in atto una emorragia grave. Di corsa all'ospedale. Tac, angiografia. E’ un ictus molto serio. Alle 23.40 il professor Salvatore Mingrino l'opera... Ictus da stress?

Dice il professor Francesco Ingrao, medico personale di Berlinguer: «Quella di Berlinguer non è stanchezza d'un giorno, ma di tutta una vita, una vita logorante, che segna un individuo. Da qualche tempo soffriva di altri malesseri, aveva turbe gastrointestinali, non digeriva, il fegato ingrossato e una lieve ipertensione. Le sigarette gli avevano accentuato un enfisema polmonare, e alle volte si lamentava di dolori alla schiena. Gli dicevo: la notte è fatta per riposare; ma la maggior parte delle notti lui le ha passate a lavorare. Non conosceva né feste né riposi settimanali, lui che lottava perché gli altri le avessero»

7 giugno 1984

Giuseppe Fiori “La vita di Enrico Berlinguer” Editori Laterza, 1989, pagg 503-505.

Nella foto di Franco Sotgiu: L'ultimo comizio di Enrico Berlinguer a Cagliari il 18 gennaio 1984.

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