Berlinguer e il Settantasette

di Claudio Bazzocchi

Enrico Berlinguer, assieme al PCI, fu uno degli oggetti principali della contestazione giovanile del movimento del Settantasette, che ebbe fra i propri motivi ispiratori la rivolta anti-edipica di Deleuze e Guattari[1].

   Le macchine desideranti, così come teorizzate dai due pensatori francesi, si fecero portatrici del desiderio contro la Legge, dell'illimitatezza pulsionale contro qualsiasi etica della responsabilità e contro le istituzioni. L'interdetto edipico era dunque il simbolo della repressione esercitata non solo dalla pratica psicanalitica, ma dalla società stessa con le sue istituzioni e persino dalle organizzazioni del movimento operaio, a loro volta repressive e improntate all'etica del sacrificio e del differimento del godimento in vista dell'obiettivo politico da raggiungere. Il corpo anarchico, la macchina che gode ovunque senza limite non si fa carico della responsabilità che il desiderio inconscio impone al soggetto e non assume su di sé l'elemento tragico della costituzione dell'umano.

   La liberazione è dunque illimitatezza pulsionale o responsabilità della costruzione di un progetto nella cui fatica e differimento della soddisfazione immediata del desiderio si costruisce l'umano? La divisione del soggetto, la sua intrinseca non coincidenza, è un'occasione di costruzione responsabile a un livello di consapevolezza ancora più profonda per il movimento operaio oltre le secche dell'economicismo o solo ciò a cui abbandonarsi nichilisticamente contro qualsiasi forma di progettualità considerata sempre e comunque repressiva?

   Il movimento che contestò Berlinguer e il PCI negli anni Settanta sposò un'idea di liberazione come illimitatezza pulsionale contro la repressione delle istituzioni, organizzazioni del movimento operaio comprese.

   Come vedremo più avanti, Berlinguer comprese la dimensione irrazionale e nichilistica di quella illimitatezza pulsionale. Avvertì il pericolo, tanto che possiamo leggere il suo famoso discorso sull'austerità come il tentativo di limitare e superare – tramite un'idea alternativa di consumo come fruizione collettiva di beni volta alla formazione e a una socialità più piena e felice – il consumismo che si profilava dietro quella illimitatezza.

   Ci preme ora rilevare che certamente nel lungo Sessantotto italiano emersero forti spinte di cambiamento provenienti dal mondo del lavoro e dalla società civile in genere, che ponevano il tema di nuovi diritti civili e sociali, dei limiti allo sviluppo e del rispetto delle differenze (non solo di genere) in una società che la modernizzazione capitalistica aveva reso più complessa e consapevole del bisogno di equilibri sociali e politici (nel senso di forme nuove, più estese e articolate di rappresentanza democratica) più avanzati. Una parte del sindacato e dei nuovi movimenti affrontò il tema fondamentale del prevalere delle politiche redistributive su quelle per l'emancipazione e la liberazione del lavoro nell'azione delle forze tradizionali di sinistra. Emersero dunque nuove soggettività che fecero nuove domande oltre la redistribuzione della ricchezza per la liberazione del lavoro e la libera espressione delle differenze. Si svelarono nuove contraddizioni del modo di produzione capitalistico: limiti ambientali e sociali allo sviluppo con il sorgere di nuovi soggetti politici radicali ecologisti. Inoltre, all'interno della fabbrica vennero criticati i rapporti di subordinazione e si chiesero non solo migliori condizioni di lavoro, ma anche una tecnica e delle macchine a misura di lavoratore, fino a porre il tema della decisione su cosa produrre e per quali bisogni. Insomma, emersero contraddizioni che richiedevano un'azione politica puntuale, qui e ora, senza attendere la presa del potere e il passaggio al socialismo.

   Per alcuni interpreti della storia d'Italia tra gli anni Sessanta e Ottanta[2], la dissociazione tra movimenti sociali e politica sarebbe così la chiave di volta per spiegare l'incapacità delle classi dirigenti di portare a compimento la modernizzazione del Paese a partire dalle nuove richiese di diritti e di espressione della creatività individuale, in una società che cominciava a offrire maggiore formazione, cultura e occasioni di incontro, divertimento e accrescimento degli interessi non solo materiali ma, appunto, espressivi.

   Ci pare che Bruno Trentin, grande sindacalista e acuto pensatore della storia e della pratica del movimento operaio, abbia ben sintetizzato il problema con la seguente domanda: «Il superamento dell'alienazione è possibile soltanto al di fuori della società industriale, negli spazi lasciati liberi dal sistema del lavoro predeterminato? Oppure esso diventa invece un percorso, certo graduale e incerto, ma immediatamente possibile? Anche, e prima di tutto, in quella parte della vita della persona che tanto incide sulla sua esistenza, sulla sua cultura, sui suoi desideri e le sue percezioni: il lavoro esplicato con altri?[3]».

   In quella domanda è implicita la proposizione di due percorsi nell'esperienza della sinistra italiana. Da una parte chi pensava che lo Stato fosse il luogo fondamentale della politica del movimento operaio per promuovere la redistribuzione della ricchezza e dall'altra coloro che vedevano nello Stato la legittimazione dell'auto-organizzazione sociale, la quale a sua volta riteneva il lavoro come campo principale della liberazione per l'affermazione dei diritti fondamentali, individuali e collettivi, quali struttura portante di un nuovo progetto di solidarietà sociale. Da una parte, dunque, l'insistenza iperpolitica sull'ingegneria istituzionale e sulla legittimazione politica delle organizzazioni del movimento operaio e dall'altra, invece, l'affermazione della necessità «di una vera e propria riforma della società civile, delle sue espressioni associative, delle sue forme di rappresentanza statale decentrata[4]».

   Torniamo allora all'interpretazione storica che vede nella separazione tra lotta sociale e lotta politica la radice dell'impasse italiana, della mancata modernizzazione del Paese a partire dall'incapacità della sinistra di rispondere alle richieste della società civile e dei movimenti sociali. Ebbene, tale divaricazione effettivamente ci fu e caratterizzò la storia degli anni Settanta, ipotecando negativamente anche la storia futura della sinistra.

   Dobbiamo però uscire dalla rappresentazione semplicistica che vede una società civile premere alle porte delle organizzazioni tradizionali del movimento operaio senza ricevere risposta ma ottenendo addirittura ostilità ed esclusione. Infatti, quei due percorsi potevano compenetrarsi e l'uno non è alternativo all'altro. La loro coesistenza doveva invece essere dialettica, perché rappresentavano e rappresentano due aspetti del reale. Il filone che pensa alla liberazione del lavoro come fondamento dell'autorganizzazione della società civile rappresenta sì il fulcro del lavoro come campo della liberazione ma, allo stesso tempo, non riesce a pensare il politico, con il carico tragico di contraddizioni tra finito e infinito, solidarietà ed egoismo, bisogno di potere come superamento della frammentazione sociale e aspirazioni libertarie. Dall'altra parte, quel filone del movimento operaio che sa farsi carico del tragico insito nel politico perde la capacità di considerare il lavoro come medium tra soggetto e oggetto e il socialismo quindi come compito filosofico. Il socialismo così inteso dice ai lavoratori che possono recuperare senso alla propria attività e sentire di potere trasformare la realtà senza sentirsene schiacciati e alienati. Dice loro che assieme possono essere produttori di una cultura autonoma non più imposta dai dominanti, tramite la quale possedere una visione del mondo per cui le cose possono essere messe a distanza, elaborate simbolicamente e poi trasformate, così che in quelle cose potranno riconoscere se stessi. Dunque il lavoro non è mera fatica e aspira a unificare la vita, e la lotta di classe non è tanto o solo un insieme di rivendicazioni materiali, ma l'affermazione dell'unità vivente della vita a fronte della lacerazione imposta dall'astrazione alienante della produzione capitalistica. Effettivamente, l'intenzionalità filosofica del socialismo è venuta man mano scemando nel pensiero e nella pratica della sinistra italiana.

   La sinistra libertaria puntò in gran parte sulla questione dell'autorealizzazione della persona che la classe e lo Stato avevano – a suo dire – conculcato fino a mettere in ombra i diritti umani fondamentali. Quell'idea di autorealizzazione proponeva uno Stato  garante della libertà dei progetti di vita e del riconoscimento di essi. Si contestava l'idea dello Stato come soggetto principale della razionalizzazione industriale, Stato di cui occupare ogni leva affinché fosse sempre più efficiente in quanto guidato dal partito dei lavoratori.

   Sfuggiva però il fatto che lo Stato è anche una sorta di contenitore degli sforzi delle generazioni in un dato ambito territoriale, per costruire e riconoscere se stessi. È dunque oggetto di un riconoscimento che è definibile come investimento affettivo, che va quindi ben oltre qualsiasi forma di Stato garante dei progetti di vita, la cui fedeltà si basi sul patriottismo costituzionale, così come teorizzato da Habermas. La crisi europea dei giorni nostri non è evidentemente solo di carattere finanziario, bensì istituzionale e politico, sta a dimostrare che il patriottismo costituzionale non è sufficiente a mantenere la legittimità delle istituzioni nel tempo.       

   Sappiamo bene che Hegel aveva individuato l'elemento tragico del moderno, dove il Sé si scinde nella tensione tra autonomia – intesa come insieme delle norme che costituiscono l'ordine sociale – e autorealizzazione. Dissoltasi l'eticità antica, l'uomo moderno non individua più la propria realizzazione in quella della comunità. Il moderno è quindi investito, secondo Hegel, dalla scissione e sicuramente il lato dell'autonomia produce una pressione coercitiva su quello della autorealizzazione del Sé.

   Ma la scissione tragica tipica del moderno è una lotta tra desiderio e istituzioni, così come volevano i fautori dell'anti-psicanalisi? Non è forse necessario ammettere invece che la stessa seconda natura è sì l'interiorizzazione di un grande numero di costrizioni esterne – che per essere diventate seconda natura non sono più tali e si configurano anzi come dimora – che socializzano però la psiche e la mediano con la società? Insomma, scarto e scissione mettono a distanza l'oggetto del desiderio e l'umano può affrontare con maggiore consapevolezza l'abisso del nulla e accettare la sfera dell'autonomia come dimora etica. L'istituzione, in quanto deposito di significati immaginari che socializzano e danno senso al mondo, viene investita affettivamente, perché è ciò che struttura, contiene e allo stesso tempo esplicita la tensione tragica. L'eticità è l'amore per un'istituzione considerata nostra non solo e non tanto come sfondo che permette il riconoscimento dei progetti di vita di ciascuno, ma come ciò che esplicita e non nasconde il conflitto tragico e allo stesso tempo cerca di attenuarlo. Per fare questo ha bisogno di costituirsi come spazio della politica che necessita della produzione di immaginario di tutti, della discussione pubblica sui grandi temi dell'esistenza in una sorta di grande autorappresentazione collettiva della propria fragilità ontologica. Di tutto questo non v'è traccia nella riflessione libertaria degli anni Settanta.

   Va inoltre rilevato che l'enfasi sull'autorealizzazione non teneva e non tiene conto della grande offensiva del capitalismo postmoderno contro l'immaginario democratico dei lavoratori. Si è trattato di una sfida vinta che ha introdotto individualismo, edonismo e privatismo nell'habitus quotidiano di milioni di persone proprio tramite la retorica dell'autorealizzazione e dell'espressione della propria creatività tramite i consumi e il tempo libero. Possiamo allora dire che il passo dall'autorealizzazione all'individualismo edonista fu breve e una parte della sinistra non colse il problema, per non dire che addirittura ne accelerò la convergenza.

   Ora, ci pare che Berlinguer fu invece molto consapevole del pericolo. All'indomani del referendum sul divorzio, Berlinguer mise in guardia da «orientamenti e abitudini di vita formatisi in larghi strati di cittadini per il diffondersi delle ideologie proprie del neocapitalismo e in conseguenza delle distorsioni e del tipo di sviluppo realizzatosi in Italia[5]». Di seguito denunciò l'irrazionalismo delle culture giovanili e dei gruppi di estrema sinistra. Compito del partito è invece per lui quello di comprendere e trasformare la realtà contro qualsiasi forma di vitalismo e attivismo per l'attivismo: «Vi sono atteggiamenti pseudo-rivoluzionari di negazione dello sviluppo produttivo, della scienza e della tecnica, e persino del patrimonio culturale, tutti considerati puri strumenti del dominio delle classi sfruttatrici. Atteggiamenti nichilistici di questo tipo vengono persino teorizzati da certi gruppi estremisti, sfociando inevitabilmente in posizioni pratiche meramente agitatorie distruttive[6]».

   Il ragionamento successivo di Berlinguer è uno straordinario corpo a corpo con le novità culturali del suo tempo, espresse dal mondo giovanile, per accoglierle e allo stesso tempo elidere da esse quell'irrazionalismo che finiva per mettere in crisi la politica e la società stessa. Dunque, sicuramente i comunisti si battevano per la valorizzazione del lavoro ma non potevano mai accettare che si mettesse in discussione la necessità umana e sociale di lavorare, certamente ci si impegnava per il rinnovamento della scuola ma in nessun modo si potevano ammettere atteggiamenti di rifiuto dello studio, i rapporti familiari non dovevano essere ovviamente di tipo autoritario ma lotta altrettanto certa si doveva contro il lassismo e la irresponsabilità nella vita coniugale e familiare oltre che in tutta la vita civile, il nazionalismo e la sua retorica andavano combattuti ma sicuramente si doveva affermare un nuovo senso diffuso e popolare della dignità nazionale. Insomma, – afferma Berlinguer – «contro le tendenze irrazionalistiche e nichilistiche ci battiamo perché si abbia fiducia nella ragione, nella capacità di intervento degli uomini "in quanto si uniscono fra loro in società", nel ricercare e trovare vie di uscita dalla crisi che travaglia il mondo e l'Italia[7]».

   La proposta dell'austerità al famoso convegno dell'Eliseo nel 1977 aveva tra i propri obiettivi proprio quello di scongiurare la deriva individualistica ed edonista dei consumi di massa. Ebbe a dire allora Berlinguer: «Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato[8]». Nel giungere alle conclusioni, da un lato affermò il valore della sua proposta per tutti coloro che, pur non essendo socialisti o comunisti, sentivano di voler combattere l'ingiustizia e l'insostenibilità prodotta dall'attuale modello di sviluppo, e dall'altro ribadì con forza che quella sua proposta andava oltre la logica del capitalismo: «Quando poniamo l’obiettivo di una programmazione dello sviluppo che abbia come fine la elevazione dell’uomo nella sua essenza umana e sociale, non come mero individuo contrapposto ai suoi simili; quando poniamo l’obiettivo del superamento di modelli di consumo e di comportamento ispirati a un esasperato individualismo; quando poniamo l’obiettivo di andare oltre l’appagamento di esigenze materiali artificiosamente indotte, e anche oltre il soddisfacimento, negli attuali modi irrazionali, costosi, alienanti e, per giunta, socialmente discriminatori, di bisogni pur essenziali; [...] quando poniamo obiettivi di tal genere, che cos’altro facciamo se non proporre forme di vita e rapporti fra gli uomini e fra gli Stati più solidali, più sociali, più umani, e dunque tali che escono dal quadro e dalla logica del capitalismo?[9]».

   Berlinguer fu dunque una figura tragica. Vide correre incontro a sé tempi nuovi, caratterizzati dal consumismo e dall'emergere dell'individualismo borghese che si poteva scorgere anche in grandi vittorie quali quelle dell'aborto del divorzio. Aveva colto i temi, i pericoli e l'irrompere di un tempo nuovo che avrebbe messo in pericolo la repubblica dei partiti e la stessa Costituzione. E aveva risposto nel modo più coerente e giusto ma, sicuramente, alla lunga impopolare nel tempo incipiente del godimento sfrenato.

A più di quarant'anni dal monito berlingueriano, si è andato affermando quello che il sociologo Mauro Magatti ha definito il capitalismo tecnonichilista[10]. La globalizzazione ha risolto il problema dell'addomesticamento del lavoro, del suo controllo grazie alla possibilità di trasferire fuori dai paesi ricchi la produzione. Il consumo è diventato centrale rispetto al lavoro. Vincolo non è più la produzione, dal momento che si produce in abbondanza, ma il consumo. E il consumo è divenuto dunque centrale nell'epoca in cui l'essere umano scopre che il cielo è vuoto, privo di ideologie, riferimenti, valori e religioni. Il capitalismo produce oggi il massimo della libertà individuale e della potenza tecnica volta all'autodeterminazione in un mondo privo però di qualsiasi tipo di narrazione verticale in grado di creare legami e desiderio. La biologia ha sottratto persino il potere di creazione a Dio e tutto diventa possibile, tutto e il contrario di tutto. Nonostante hegelismo, marxismo e psicoanalisi il mondo sembra essere trasparente, insieme di oggetti infinitamente manipolabili, persino geneticamente.

Una parte consistente della sinistra pensa purtroppo che quella infinità manipolabilità costituisca la liberazione e che suo compito sia mantenere quel mondo fluido, sempre più orizzontale senza alcuna verticalità, senza più alcun legame con tradizioni e culture che hanno cercato di pensare lo scarto tra pensiero ed essere, tra finito e infinito. Ha insomma scambiato il godimento con la liberazione e ha contribuito a rimuovere la realtà.

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Claudio Bazzocchi è studioso di filosofia politica. Nel 2020 è uscito il suo ultimo libro per Meltemi: Il misterioso zoppicare dell’uomo. Indeterminazione umana, democrazia, autorità e libertà. Con Editoriale Scientifica ha pubblicato nel 2017 La comunità imperfetta. In difesa dell’idea di nazione e, nel 2015, Giuseppe Capograssi. La bellezza del finito, il lavoro dell’infinito. Nel 2014, è uscito, per Ediesse, L’umanità ovunque. Sinistra e connessione sentimentale. Con ETS ha pubblicato Riconoscimento, libertà e Stato. Saggi sull’eticità hegeliana (2012), Hölderlin e la rivoluzione.Il socialismo oggi tra libertà e destino (2011). È uscito nel 2012 il suo Virtù e fortuna. In difesa del partito politico (il Ponte Editore, 2012). Ha pubblicato, nel 2009, presso Diabasis, Il fondamento tragico della politica. Per una nuova antropologia socialista.


[1] Ovvio il riferimento a G. Deleuze - F. Guattari, Anti Edidpo, Einaudi, Torino 2002.

[2] Si veda, tra gli altri, G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Donzelli, Roma 2005.

[3] B. Trentin, La città del lavoro. Sinistra e crisi del fordismo, Feltrinelli, Milano 1997, p. 106.

[4] B. Trentin, La città del lavoro, cit. p. 232.

[5] E. Berlinguer, «Rapporto e conclusioni al CC e alla CCC in preparazione del XIV Congresso del PCI, 10-12 dicembre 1974», in Id., La "questione comunista", Editori Riuniti, Roma 1975, p. 912.

[6] Ibidem, p. 913.

[7] Ibidem,p. 914.

[8] E. Berlinguer, «Austerità. Occasione per trasformare l’Italia. Conclusioni al convegno degli intellettuali Roma, Teatro Eliseo, 15 gennaio 1977» in Id., La passione non è finita, Einaudi, Torino 2012, pp. 38-39.

[9] Ibidem, pp. 44-45.

[10] Cfr. M. Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano 2011; e Id., La grande contrazione. I fallimenti della libertà e le vie del suo riscatto, Feltrinelli, Milano 2012.

Opera di ©Igino Panzino

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