La pace nella cultura del partito comunista italiano
di Gregorio Sorgonà.
Il nostro incontro precede l’inaugurazione in Sardegna della mostra su Enrico Berlinguer, che ho curato insieme ad Alessandro d’Onofrio e ad Alexander Höbel. A quasi un anno dall’apertura romana, e a più di due da quando abbiamo iniziato a pensarla, si sono sommate molte iniziative, di carattere commemorativo e non solo. Penso al film La grande ambizione, diretto da Andrea Segre e interpretato da Elio Germano, oppure al portale della Fondazione Gramsci che renderà disponibile in digitale la quasi totalità dell’archivio di Berlinguer, un progetto fondamentale per noi studiosi ma che consentirà un accesso alle sue carte e alla sua biografia a una utenza incomparabilmente più ampia rispetto alla comunità degli storici.
Il successo di queste iniziative conferma l’attualità di Berlinguer. Al tempo stesso, celebrare una figura d’eccezione, una qualsiasi figura d’eccezione non solo Berlinguer, può fare correre dei rischi. Non tanto per la dimensione commemorativa in sé. Il compito delle strutture di missione per la celebrazione degli anniversari nazionali è meritorio, contribuisce a costruire un simbolico nazionale attorno a protagonisti della nostra democrazia. Ed è meritorio il supporto che viene a queste iniziative da governi e amministrazioni territoriali. Il rischio è semmai un altro, è quello di individualizzare percorsi biografici che sono stati anche collettivi. Noi viviamo tempi in cui resta poca traccia, spesso alterata e mistificata, di cosa siano stati i partiti e le mobilitazioni di massa. Io ne ho una memoria presente, vivida. Ma già le generazioni successive alla mia non hanno avuto modo di conoscere questa esperienza, spesso nemmeno in modo indiretto.
Da molti anni, i protagonisti della nostra vita pubblica, non solo di quella politica, sono singoli individui, identificati dal loro successo, che spesso si bruciano rapidamente quando diviene evidente la distanza tra narrazione eccezionalistica e realtà. Era molto alto il rischio che la celebrazione si trasformasse dell’individualizzazione della figura di Berlinguer. Penso di poter dire che questo rischio lo abbiamo evitato. Le iniziative di questi anni hanno enfatizzato la contestualizzazione della sua biografia in una comunità umana amplissima. Ed è questo l’approccio coerente con la vita di Berlinguer che fu quella di un uomo di partito, amato dai militanti ma anche dedito all’organizzazione con una intensità che solo una grande passione e una grande convinzione possono spiegare.
Perché questa introduzione per parlare di pace? Perché la parola “pace” per Berlinguer è innanzitutto la pace concepita da un comunista. L’uso che fa di questo concetto cambia, anche significativamente, di fronte ai mutamenti del suo rapporto col proprio mondo. Per capire quale pace avesse in mente bisogna immergere questa parola nella storia di un movimento rivoluzionario e internazionalista: che nasce come un progetto di radicale trasformazione del mondo. E i grandi progetti di trasformazione non sono pacifici, trovano nel conflitto una condizione di sviluppo. Per movimenti di questo tipo, la pace può essere un fine da raggiungere o una condizione da assicurare una volta sconfitto un nemico, una volta affermata una nuova egemonia politica e sociale.
Il lessico e la cultura del comunismo sono impregnati di questa concezione del mondo e non ci deve sorprendere. In questo movimento l’inevitabilità della guerra è a lungo un paradigma condiviso: è ritenuta inevitabile la guerra tra potenze imperialiste, una previsione alimentata dal ciclo di conflitti che marchiano a fuoco la prima metà del XX secolo, ed è ritenuta inevitabile la guerra di aggressione delle potenze occidentali contro lo Stato rivoluzionario, una convinzione rafforzata dalla guerra civile in Russia. Il comunismo italiano fa proprio questo paradigma e lo radicalizza negli anni in cui è guidato da Bordiga. Al tempo stesso, quando il gruppo torinese degli ordinovisti prende il sopravvento, tra il 1923-1924, vengono introdotte delle novità significative. Gramsci, in particolare, propone di ripensare la rivoluzione e la immagina come un processo laborioso di costruzione del consenso. Anni dopo, la distinzione tra guerra di posizione e guerra di movimento nei Quaderni del carcere esprime una filosofia della storia che procede sì per contrapposizioni, ma non le riduce allo scontro frontale.
Queste differenziazioni introdotte da Gramsci saranno uno degli elementi caratterizzanti della cultura politica del Pci, per quanto non certo l’unico. Ad esempio, la sicurezza dell’Unione Sovietica e la convinzione dell’inevitabilità della guerra sono due imperativi di Stalin che si alimentano a vicenda, contribuendo a forgiare alcune scelte strategiche del comunismo internazionale dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Nell’età atomica e nel contesto della guerra fredda, i protagonisti della politica internazionale esprimono infatti concezioni del mondo opposte: non possono dichiararsi guerra, ma non esiste una reale condizione di pace tra di loro. Ciò dà vita a un lungo periodo di pace in Europa, per quanto nel resto del mondo le guerre di liberazione, le guerre tra stati e le guerre civili sono la norma, non l’eccezione.
Negli anni di più intensa guerra fredda, la parola “pace” è ricorrente nel lessico comunista. Quando il giovane Berlinguer inizia la sua militanza nel Pci, l’Urss è percepita come la potenza di pace che col suo enorme sacrificio ha liberato il continente dal nazifascismo, dall’ideologia e dal regime di guerra per eccellenza. Quando diviene un capo dei giovani comunisti, i “partigiani della pace” stanno già organizzando un movimento che coinvolge milioni di persone, compresi molti non comunisti, in tutta Europa. L’uso della pace come parola d’ordine del Pci assume evidentemente un aspetto strumentale, perché l’attenzione al riarmo occidentale è pari all’indifferenza per la potenza convenzionale dell’esercito sovietico e per il modo brutale in cui avviene la stabilizzazione postbellica nell’Europa dell’Est. Ma questo è solo un lato della medaglia. Nelle campagne per la pace non c’è solo opportunismo politico o “doppiezza” verso gli interessi sovietici. L’iniziativa ha successo perché la società civile è sensibile al rifiuto della guerra, dopo la gigantesca devastazione vissuta dall’Europa tra il 1939 e il 1945, in molte sue parti ridotta a un ossario e a un cumulo di macerie.
La vicenda del comunismo italiano, in particolare, è plasmata attraverso la tragedia del fascismo e l’esperienza rigeneratrice dell’antifascismo. In particolare, per un comunista della generazione di Berlinguer, l’antifascismo è l’orizzonte eroico e tragico dentro cui matura la scelta di aderire al Pci. E l’antifascismo italiano condivide il rifiuto di una cultura bellicista, autoritaria e nazionalista. La nostra Costituzione, più di ogni altro documento, condensa questa idea di relazioni internazionali, fondata sul primato del diritto e sul rifiuto alla guerra come strumento d’offesa. Per altro, la pace è anche una condizione necessaria per dare senso alla strategia del partito nuovo di Togliatti: una strategia che si fonda sul dialogo tra le forze antifasciste e può reggersi solo in condizioni di reciproca legittimazione internazionale. Tant’è che Togliatti sarà l’ultimo tra i leader comunisti ad accettare la divisione in campi e tra i primi, dopo la morte di Stalin, a pronunciarsi contro la dottrina dell’inevitabilità della guerra. Cosa che fa nel 1954 quando denuncia il rischio dell’estinzione atomica, in sintonia con le dichiarazioni distensive che Georgij Malenkov rilascia alcuni mesi prima, con ogni probabilità per effetto dello shock in lui causato dall’enorme potenziale distruttivo delle bombe termonucleari.
Il perimetro variabile ma angusto in cui si muove il Pci dimostra la difficoltà di conciliare antifascismo, cultura di pace e lealtà verso l’Unione Sovietica. Le campagne di mobilitazione per la pace si rivelano ancor più contraddittorie dopo il 1956, quando l’esercito sovietico reprime la rivolta nazionale ungherese. Negli anni seguenti, infatti, la risorsa simbolica a cui fanno riferimento i comunisti italiani non è tanto la pace, quanto la riattualizzazione della resistenza su scenari non europei. I movimenti anticoloniali contribuiscono a forgiare un nuovo immaginario globale del comunismo italiano che è pienamente introiettato da Berlinguer. Ed è importante sottolinearlo perché la sua idea di pace si forma attraverso il supporto e l’empatia per i protagonisti di queste lotte, a partire dalla Repubblica democratica del Vietnam. Per Berlinguer, lo vedremo a breve, non può esserci pace senza uguaglianza tra esseri umani e senza uguaglianza tra popoli.
In altre parole, il concetto di pace assume, per lui e per il Pci, una spazializzazione precisa: non significa la stessa cosa in Europa e fuori dai suoi confini. Quando l’orizzonte di Berlinguer e del Pci si sposta fuori dall’Europa, la pace è una condizione da assicurare anche attraverso trasformazioni radicali. Per un comunista è scontato che non ci possa essere pace nei paesi sottoposti al colonialismo europeo o ad altre forme di oppressione se non dopo la liberazione da quel giogo, se necessario ricorrendo al conflitto diretto, come accade in Vietnam, in Algeria e poi in Angola, Mozambico e anche in Sudafrica, che non si libera dall’apartheid solo per pressione dell’opinione pubblica internazionale.
In Europa, invece, la pace è uno strumento e un obiettivo. Già con Togliatti il Pci aveva mandato in soffitta la prospettiva della guerra inevitabile ed era diventato il principale sostenitore della coesistenza pacifica. Berlinguer si muove dentro questa architettura, ma si differenzia sia per l’atteggiamento verso l’Unione Sovietica sia per la convinzione che i blocchi vadano definitivamente trascesi. È ormai indirizzato verso il vertice del partito quando il Pci rompe le liturgie del mondo comunista e condanna apertamente la politica di potenza sovietica in Cecoslovacchia. Nel giugno 1969 è proprio Berlinguer a guidare la delegazione italiana alla conferenza mondiale dei partiti comunisti di Mosca, in occasione della quale ribadisce la condanna dell’invasione e parla esplicitamente di «crisi dell’internazionalismo». Intendiamoci, fino all’invasione dell’Afghanistan, Berlinguer come tutto il Pci si muoverà su un doppio registro. Le dichiarazioni in cui ribadisce il nesso tra campo socialista e pace sono numerose. Anche in un discorso iconico per il gelo con cui viene accolto dalla platea sovietica, l’intervento per il 60esimo della Rivoluzione d’ottobre in cui afferma il valore universale della democrazia, esordisce riconoscendo all’Unione Sovietica una «costante opera per difendere la pace mondiale» a partire dall’innegabile sacrificio nella lotta al nazifascismo. Al tempo stesso, la sua fiducia nell’Urss si sta evidentemente esaurendo come emerge dai documenti di archivio, da prese di posizione pubbliche e dalla convinzione, confessata alla moglie e a Emanuele Macaluso, di aver quasi certamente subito un attentato in Bulgaria nell’ottobre 1973. Non è superfluo ricordare che, nel comunismo italiano, i cambiamenti raramente sono improvvisi, arrivano semmai dopo una fase di accumulazione, come conseguenza di un evento che li rende presentabili a tutto il partito. Ciò vale anche per l’idea di pace di Berlinguer che è sempre concettualizzata accompagnandola a una serie di condizioni niente affatto garantite nel campo socialista. Ad esempio, la relazione al XII congresso del febbraio 1969 afferma che la soluzione dei «grandi problemi che riguardano il destino dei popoli e dell’umanità» va avviata «nella direzione della pace e dell’indipendenza delle nazioni»: ma quella indipendenza era stata appena negata al “socialismo dal volto umano” come i comunisti italiani avevano denunciato apertamente nell’agosto 1968.
Le contraddizioni a cui ho appena fatto cenno alimentano la crisi dell’internazionalismo comunista sulla quale Berlinguer torna spesso negli anni Settanta. In questo decennio, l’interdipendenza tra politica nazionale e internazionale è un delicato equilibrio sul filo della distensione e degli equivoci che genera: per molti questa strategia sembra essere l’inizio della fine della guerra fredda, ma in realtà nasce per consolidare i blocchi. La distensione, non sembri un paradosso, non mette al primo posto la pace, bensì la stabilizzazione, come testimoniano Praga prima e Santiago del Cile poi. E il segretario del Pci è consapevole degli equilibri tra i blocchi e dei loro rapporti di forza interni. Giova ricordare che il compromesso storico non è proposto all’indomani di uno dei vari incontri tra sovietici e statunitensi, ma dopo un colpo di Stato militare che, con il coinvolgimento degli Stati Uniti, fa piombare il Cile in un regno del terrore. Non c’è una prospettiva irenica sullo sfondo di questa strategia. La distensione, scrive Berlinguer, non comporta «l’avvento di un’era di tranquillità, la fine della lotta delle classi sul piano interno e internazionale, delle contro-rivoluzioni e delle rivoluzioni». Una riflessione che consente di contestualizzare anche la sua nota intervista a Giampaolo Pansa per il “Corriere della Sera”. Per fare chiarezza, una intervista che non può essere utilizzata per descrivere Berlinguer come guadagnato al lato occidentale dello scontro Est-Ovest, visto che la sua politica internazionale aveva come obiettivo semmai il superamento degli schematismi bipolari.
Nella politica nazionale, l’aspirazione a superare il bipolarismo gli serve a liberare la situazione italiana e ad agevolare la legittimazione del Pci; nella politica internazionale il superamento dei blocchi è finalizzato a dare voce al Sud del mondo. Pace ed eguaglianza globale costituiscono un dittico ovvio già nel giovane Berlinguer. Ma negli anni della maturità la coppia tematica pace-eguaglianza globale diviene il fulcro della sua politica internazionale. Il discorso dell’Eliseo del gennaio 1977, ad esempio, indica nell’ingresso «sulla scena mondiale di popoli e paesi ex-coloniali» l’evento dagli «effetti non […] più reversibili» che rende necessaria l’austerità. Il Nuovo Ordine Economico Internazionale, immaginato per rappresentare gli interessi di quello che oggi chiamiamo “Sud globale”, è l’orizzonte in cui il segretario del Pci inscrive un internazionalismo di tipo nuovo mentre entra in crisi quello comunista.
L’invasione dell’Afghanistan e la dichiarazione dello Stato d’assedio in Polonia fanno precipitare definitivamente la crisi dell’internazionalismo comunista, sancita dalla dichiarazione sull’esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre. Negli anni Ottanta, anche nel discorso pubblico, Berlinguer individua i costruttori di pace oltre l’asse est-ovest, in movimenti e attori proiettati al di là del bipolarismo. Nel comizio conclusivo della Festa dell’Unità del 20 settembre 1981 fa riferimento a «forze come il Movimento dei paesi non allineati, un’Europa occidentale più autonoma e attiva, istituzioni come la Chiesa cattolica e le altre Chiese» ma anche a «grandi forze sociali e sindacali, […] partiti democratici d’Europa» e «quella miriade di associazioni e organizzazioni politiche, culturali, scientifiche, giovanili, femminili, che hanno già fatto sentire la loro presenza e che possono scendere più decisamente in campo contro il riarmo e per la pace». E in questa occasione annuncia anche l’adozione delle «Carta della pace e dello sviluppo».
Pace e sviluppo, pace e uguaglianza vanno sempre di pari passo nella sua riflessione. Se cambiano le forze e lo schieramento con cui realizzare la pace, non cambia la dimensione plurale che questo concetto assume nella sua proposta politica. Ad esempio, in un’intervista a “Critica marxista” del 1981 definisce la pace come una aspirazione intrecciata ad altre di carattere egualitario: ciò che auspica è «un rapporto tra tutte le forze che vogliono impegnarsi per salvaguardare la pace e tra le forze che aspirano alla liberazione nazionale, ad aver garantita l’indipendenza e sovranità dei propri paesi, al rinnovamento politico e sociale». Il campo socialista non viene nominato, anzi, nel passaggio successivo afferma che «rimanere attaccati alla visione dell’internazionalismo propria del periodo della Terza Internazionale […] non avrebbe più senso». Una nuova forza propulsiva viene cercata in nuovi soggetti nazionali e internazionali. Berlinguer guarda soprattutto alle nuove generazioni che criticano il riarmo all’interno di un universo culturale post-bipolare, intriso di pacifismo, femminismo ed ecologismo. Nell’intervista all’”Unità” del 18 dicembre 1983, che introduce il numero speciale su 1984 di George Orwell, Berlinguer definisce questo movimento generazionale «un fatto di grandissima importanza» perché si propone di «sventare il pericolo supremo della guerra atomica» e perché incarna «una presa di coscienza che coinvolge tutti i dati della vita di questa nostra civiltà».
Un documento particolarmente significativo è infine il discorso di chiusura alla Perugia-Assisi del 9 ottobre 1983, che esordisce omaggiando il pacifismo come movimento civile e religioso. Un’attenzione niente affatto occasionata dalla circostanza, ma sintomo, io credo, di un mutamento di cultura politica. Alcuni dei presupposti del comunismo novecentesco sono ormai ribaltati: la guerra è da evitare a ogni costo, la pace è al primo posto e il disarmo è la proposta per realizzarla. Berlinguer definisce erroneo «ritenere che il corso preso dalle relazioni internazionali e dalla sofisticazione degli armamenti, sia all’Ovest che all’Est, renda la guerra inevitabile». La possibilità della guerra non è poi intrinseca alla volontà di uno dei due sistemi contrapposti, quanto semmai all’irrazionalità della politica dei blocchi, tant’è che un conflitto atomico può scatenarsi per sbaglio: «in un clima internazionale avvelenato dalla diffidenza, – afferma nel discorso di Assisi – […] può esservi anche un errore nei calcoli tecnici, errore sempre più probabile nell’era in cui gli armamenti sono regolati da automatismi elettronici super sofisticati». Una osservazione che, per inciso, conferma come la fiducia teleologica nell’Unione Sovietica e nella sua capacità di dominare la modernità fosse venuta meno. Per altro pochi anni dopo, nel 1986, l’incidente di Chernobyl avrebbe confermato il rischio dell’errore umano e il paradosso per cui esso era amplificato dalla segretezza delle informazioni in uno Stato di sicurezza.
Al tempo stesso, persiste un filo robusto tra Berlinguer e altri aspetti fondamentali della sua identità di comunista. Quella che possiamo chiamare la dimensione aggettivata della pace è ancora l’asse portante del suo discorso, mentre nuovi aggettivi sono innestati sul tronco di una struttura argomentativa stabilizzatasi da tempo su una concezione egualitaria delle relazioni internazionali. Nel discorso di Assisi le cinque cause di guerra sono elencate nel modo che segue: al primo posto pone «gli squilibri e le disuguaglianze economiche, specie quelle tra il Nord e il Sud del mondo», poi vengono «l’esistenza di conflitti tra gli Stati […]; la rigidità dei blocchi […]; la corsa agli armamenti […]; l’inquinamento delle coscienze con sentimenti di violenza, di odio nazionale o di razza, e con fanatismi di ogni stampo». La pace è quindi al primo posto insieme all’eguaglianza, una eguaglianza fatta di condivisione delle risorse e dello sviluppo su scala globale.
Vorrei concludere adesso con qualche richiamo all’attualità o all’inattualità di questa idea di pace. I blocchi contrapposti oggi non esistono più, tranne nelle banalizzazioni dei quotidiani, ma la corsa agli armamenti e l’inquinamento delle coscienze col tarlo del nazionalismo formano un circolo vizioso tra le cause delle guerre e le risposte al loro ritorno. Il rispetto dell’indipendenza nazionale e del diritto internazionale è una bussola accantonata mentre ci si orienta spesso per doppi standard di legittimità. Il nesso tra pace ed eguaglianza mondiale è più attuale che mai, ma prevale un discorso politico miope che vuole rifare le nazioni grandi di nuovo e al tempo stesso non sa guardare alle necessità dell’intero a cui apparteniamo. Un intero a cui fortunatamente sono sensibili le giovani generazioni che si distinguono per sensibilità, in particolare quella ecologica, più deboli nelle generazioni precedenti.
Da tutte queste coppie di opposti che ho elencato ne ricaviamo che la pace, anche nei nostri tempi, non è un dato di fatto ma qualcosa per cui mobilitarsi. Berlinguer indicava nell’azione collettiva e in un nuovo internazionalismo lo strumento e il fine per liberarci dalle guerre. Di discontinuità col passato credo di averne evidenziate molte oggi, ma questi obiettivi e questi mezzi mi pare contengano un messaggio di lunga durata che arriva fino ai giorni nostri.
Foto: Archivio Podda, Comizio di Enrico Berlinguer Bastione Saint Remy, Cagliari, 15 gennaio 1984
Bella ricostruzione storica del pensiero di Enrico Berlinguer da parte di Sorgona', che mostra come il legame costante, ma dinamico, fra pace ed eguaglianza diventi un concetto chiave nell'evoluzione dello stesso pensiero di Berlinguer,che approda alla consapevolezza della necessità di superare i blocchi contrapposti per un nuovo e pacifico internazionalismo.