Enrico Berlinguer, comunista italiano

di Antonio Napoletano

Sono stato un “berlingueriano” laicamente convinto dalla sua riflessione e proposta politica. Per questo comprendo il culto popolare che attorno alla sua figura si è spontaneamente realizzato nel tempo e a fronte di una inarrestabile, generale deriva politica. Deriva che, non a caso, coincide con il tentativo ripetuto di farne una sorta di santino “etico” e “riformista” a guardia di tutto il peggio, da lui stesso denunciato in vita, come incombente e inevitabile rivincita di tutti gli interessi offesi dal formidabile ciclo di lotte, nazionali e internazionali, di cui fu attento protagonista e testimone.

     Molto si è scritto su Enrico Berlinguer, ma molto, moltissimo rimane ancora da scrivere, decifrare, non solo nella ricostruzione della sua politica e della costante riflessione ad essa collegata, ma del contesto che, per la sua formazione, per il suo modo stesso di concepire e praticare la politica, non fu mai piccolo cabotaggio, ma grande politica, nazionale e internazionale.

     Del resto, le piccolezze e le bassezze che hanno fatto seguito alla sua dipartita fisica, morale e politica, sono le stesse che hanno coinvolto l’altro grande protagonista moderato: Aldo Moro, nel significativo, reciproco riconoscimento operato oltre le rispettive culture e idiosincrasie. Essi si fidarono l’un l’altro e poterono insieme progettare sulla base di una riflessione largamente comune sui “vincoli” esterni di questo nostro Paese, con la sua storia, le sue contraddizioni laceranti, la sua fragilità a fronte della necessità, impellente per entrambi, di forzarne limiti e antropologie.

     Essi, con quella loro idea di Italia, sapevano di toccare nervi scoperti, sensibilità indicibili, interessi profondi. Si è detto che lo facessero ignorandoli. Si sono scritti libri su questo venir meno di consapevolezza, che avrebbe condannato in partenza quella politica e quei protagonisti. Il che è obiettivamente fuorviante nel migliore dei casi, in quanto – e non a caso – non solo entrambi avevano continua consapevolezza del quadro internazionale e delle modalità e degli interessi che in esso si muovevano, ma di come proprio la democrazia, come fatto vivo e di massa, fosse divenuta la camicia di forza di cui ci si voleva ad ogni costo liberare. La post-democrazia ha una storia lunga e il dominio delle tecnoligarchie è da sempre il suo non detto.  Quello che non si vuole dire – e che è e rimane il vero buco nero di tutta quella vicenda – riguarda l’uso di politiche e mezzi “non ortodossi”, il progressivo chiudersi di ogni spazio reale di libertà e di autonomia.

     Ha scritto recentemente e in modo molto efficace Gigi Ceppelletti in suo post:    

     “Berlinguer affermava che una politica che puntasse alla crescita del potere delle classi lavoratrici non si poteva attuare senza un "compromesso" fra le grandi forze popolari del Paese, compromesso che garantisse la permanenza del processo di cambiamento all'interno di un quadro di stabilità delle istituzioni democratiche. Qualcosa di simile, ma di più avanzato del "compromesso socialdemocratico", mai attuato in Italia per la particolarità della sinistra nazionale e per l'ostilità del mondo imprenditoriale”.

     E’ contro questa “evoluzione” possibile quanto necessaria che si è scatenata la reazione più torbida. Quel ‘compromesso’ non s’aveva da fare. Non solo per la guerra (fredda) in corso, ma per gli effetti che avrebbe potuto avere in Europa e, quindi, nel mondo 

     Che fosse la democrazia la posta in gioco, che era proprio contro di essa e alle sue capacità propulsive che i suoi nemici miravano era chiarissimo in Berlinguer, che lo andava ripetendo sia a Est che Ovest. Limpidamente.

      “L’esperienza compiuta ci ha portato alla conclusione che la democrazia è oggi non soltanto il terreno sul quale l’avversario di classe è costretto a retrocedere, ma è anche il valore storicamente universale sul quale fondare un'originale società socialista. Ecco perché la nostra lotta unitaria (che cerca costantemente l’intesa con altre forze d'ispirazione socialista e cristiana in Italia e in Europa occidentale) è rivolta a realizzare una società nuova – socialista – che garantisca tutte le libertà personali e collettive, civili e religiose, il carattere non ideologico dello Stato, la possibilità dell'esistenza di diversi partiti, il pluralismo della vita sociale, culturale, ideale”

      A questo si rispose con un vero e proprio linciaggio, sia da destra sia da sinistra. Ogni “untorello” si sentì in dovere di replicare, deformare, irridere, censurare, scomunicare. Né si volle comprendere la portata di queste affermazioni teoriche e di principio quando furono ribadite a seguito dell’ennesimo strappo sovietico:

      “Ciò che è avvenuto in Polonia ci induce a considerare che effettivamente la capacità propulsiva di rinnovamento delle società che si sono create nell’Est europeo è venuta esaurendosi. Parlo di una spinta propulsiva che si è manifestata per lunghi periodi e che ha la sua data d'inizio nella Rivoluzione socialista dell’Ottobre. Oggi siamo giunti a un punto in cui quella fase si chiude. Noi pensiamo che gli insegnamenti fondamentali che ci ha trasmesso prima di tutto Marx e alcune delle lezioni di Lenin conservino una loro validità; e che d’altra parte vi sia tutto un patrimonio e tutta una parte di questo insegnamento che sono ormai caduti e debbono essere abbandonati e del resto sono stati da noi stessi abbandonati con gli sviluppi nuovi che abbiamo dato alla nostra elaborazione, centrata su un tema che non era centrale in Lenin. Il tema su cui noi ci concentriamo è quello dei modi e delle forme della costruzione socialista in società economicamente sviluppate e con tradizioni democratiche, quali sono le società dell’occidente europeo. Da questo punto di vista, noi consideriamo l’esperienza storica del movimento socialista nelle due fasi fondamentali: quella socialdemocratica e quella dei paesi dove il socialismo è stato avviato sotto la direzione di partiti comunisti. Entrambe vanno superate criticamente con nuove soluzioni, cioè con quella che noi chiamiamo la terza via, terza rispetto alle vie tradizionali della socialdemocrazia e ai modelli dell’Est europeo”.

     Contro la difficoltà di quella ricerca e anche le sue contraddizioni si rovesciò il sangue di Aldo Moro.

     S’aprì la stagione dell’ignavia. E la ‘terza via’ che ne risultò fu quella di Tony Blair. Come dire: dalle stelle alle stalle. E lì ancora stiamo.

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Antonio Napoletano, nato nel 1944, romano trapiantato a Bologna. Giornalista pubblicista, con ampia esperienza nelle pagine locali e regionali de ”l’Unità” , Prima Comunicazione,  nel comitato di direzione de “La Società” rivista di dibattito e confronto della Federazione del Pci di Bologna, direttore della radio regionale “Punto Radio”, funzionario del Comune di Bologna da ultimo presso l’assessorato alla Cultura realizzando la rivista su cartaceo e on line “Pagine pet” .

Enrico Berlinguer in uno stand di una Festa de l'Unità

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