"Vita Appesa": un libro che ci aiuta a restare umani
di Rebecca Pisanu
Ringrazio Atef Abu Saif che ci regala un testo molto profondo che in questo momento ci serve. Io, un po’ per deformazione professionale e formativa, credo molto nel fatto che la letteratura sia capace di rompere tutte quelle barriere che si possono creare nei rapporti umani e nei rapporti tra popoli. Ci credo veramente tanto e credo che questo libro ne sia veramente il simbolo. Noi quando ci approcciamo al genocidio in atto, quando parliamo di Palestina, del popolo palestinese, siamo, grazie al movimento popolare e dal basso che abbiamo avuto, bombardati da informazioni, che principalmente prendono vita in dati. Quando noi, però, leggiamo i dati, non dobbiamo dimenticarci che dietro quei numeri ci sono delle vite umane, delle persone e i dati a volte se noi non siamo capaci di cogliere la sofferenza, di essere empatici, disumanizzano. E noi dobbiamo cercare il più possibile di restare umani e questo libro ci aiuta farlo, perché abbiamo bisogno anche come Italiani, di rinfrescarci gli insegnamenti dei nostri padri, dei nostri nonni. Quegli insegnamenti di Resistenza, quei racconti di Resistenza che ci sono stati tanto raccontati, che hanno segnato le nostre famiglie, il nostro vissuto. Oggi, la Resistenza palestinese, e questo libro lo racconta, è una resistenza che si sviluppa nella quotidianità, che parte dallo stare a tavola insieme ad un bambino che riesce a giocare nel contesto di un genocidio. È un atto di resistenza andare a scuola, innamorarsi, vivere i rapporti umani. È un atto di resistenza andare in università.
(Il libro racconta la storia di uno studente e io da studentessa empatizzo con questa storia, che sia reale o meno.) Diventa un atto di resistenza, ma soprattutto diventa un atto di liberazione, di emancipazione e questo insegnamento abbiamo bisogno oggi che ci venga di nuovo impartito. Noi spesso diciamo ‘non siamo noi che insegniamo qualcosa ai Palestinesi, sono i Palestinesi che insegnano qualcosa a noi. È vero, ma cosa ci stanno insegnando?
Ci stanno insegnando che la scuola, l’università sono strumenti di emancipazione. Se noi, noi attivisti, noi studenti, noi politici, noi persone inserite nella società ricominciamo a credere veramente che il titolo di studio sia uno strumento di emancipazione, che rivoluzione per la nostra società sarebbe?
E chi ce lo sta insegnando oggi che lo studio è rivoluzione?
La storia degli studenti come quella che viene raccontata in ‘Vita Appesa’. E mi piace citarlo perché proprio in questi giorni abbiamo accolto due studenti palestinesi all’università di Cagliari e io credo che nella comunità studentesca e universitaria, questi studenti come tutti i colleghi e le colleghe rifugiate, troveranno sicuramente una casa in noi, perché, mi duole dirlo, le istituzioni universitarie sono ancora un po’ indietro, anche se qualche passettino in avanti c’è.
La storia di questo ragazzo ci parla di lontananza, ci parla di lasciare casa per studiare e il Paese in cui arriva è il nostro, è l’Italia. E allora ci ricorda anche un’altra cosa questa storia che noi dobbiamo costruire un luogo di pace, un luogo in cui tutti possano sentirsi accolti. Ci racconta anche che la lontananza non significa disinteresse, non significa che non penso al mio Paese, che non soffro per il mio Paese e i miei concittadini.
È anche una storia di ritorno in seguito ad un lutto importante sulla Striscia di Gaza, vive in un campo profughi. E proprio nella descrizione della vita di questo campo profughi che va avanti, nonostante tutto, nonostante il genocidio, si incontrano, questi atti di resistenza. Che noi potremmo pensare che siano atti di eroi, atti di eroismo. C’è anche questo tema all'interno del libro: cosa significa considerare eroi, far diventare eroi i martiri palestinesi? Che significato gli diamo? Che impatto ha questo nella nostra società? Perché se noi applichiamo la nostra idea di eroismo, se noi pensiamo ad un eroe, pensiamo ad una persona che ha dei superpoteri, che ha dei poteri soprannaturali, e pensiamo anche ad una persona che probabilmente si salva da solo e invece, i martiri palestinesi non sono eroi in questo senso. Sono eroi perché mantengono la quotidianità, mantengono in vita quelle attività, quei momenti di socialità, quei rapporti umani nonostante tutto. Lo vediamo nella solidarietà che si innesca quando ci sono le demolizioni delle case. Lo vediamo quando i bambini assistono inermi davanti alla demolizione della loro scuola, di quella scuola che era il loro strumento di liberazione. Perché voglio premere su questo concetto? Perché se noi davanti ai palestinesi, al popolo palestinese, vediamo eroi, non vediamo degli esseri umani. E invece è importante vedere degli esseri umani. Perché se io vedo un essere umano che soffre, uno studente che soffre, io non vedo Salim, il protagonista del libro, io vedo me stessa, perché empatizzo con quella persona, perché entro in contatto con quella persona, perché quella persona vive le mie stesse cose, ha i miei stessi sogni. E se io entro in contatto con lei, se io empatizzo con lei, allora posso comprendere. E se posso comprendere, posso prendere a cuore il problema. E prenderlo a cuore significa, oggi, trasformare questo sentimento di solidarietà, di empatia, in azione concreta, che non può essere solo ed esclusivamente scendere in piazza. Significa e deve essere, vederci qui oggi, continuare a parlare di Palestina mentre ci illudono che ci sia stata una tregua. Significa riappropriarci di quelle istituzioni che oggi stanno tradendo i valori che le hanno fondate. Su questa cosa io volevo insistere perché veramente se noi l'azione non la trasformiamo in impegno concreto per riportare le istituzioni ai loro valori, allora tutto è vano. Perché noi possiamo parlare, possiamo usare slogan, possiamo condividere i post su social, ma dobbiamo riappropriarci delle nostre istituzioni, che sono istituzioni democratiche, che sono istituzioni libere, che sono istituzioni che sono state fondate e hanno deciso di rispettare il diritto internazionale. E dobbiamo riappropriarcene, è proprio basilare. E per fare questo serve l'impegno di tutti, ma anche da un punto di vista strettamente politico perché, concludo, e questo libro ce lo insegna, se oggi la resistenza dei palestinesi è la quotidianità, per noi il primo atto di resistenza deve essere empatizzare e domani questa empatia deve essere trasformata in azione politica, deve essere trasformata in voto alle elezioni, deve essere trasformata in persone che vanno a votare e scelgono di essere fedeli ai loro valori e di cambiare così la storia, perché diversamente non riusciremmo.


