Nel romanzo Vita Appesa di Atef Abu Sai la vita palpita calda e potente a Gaza sebbene “appesa” e nonostante tutto
di Costantino Cossu
Credo che nel presentare “Vita appesa” di Atef Abu Saif sia in primo luogo necessario delineare il quadro storico dentro il quale si svolgono le vicende narrate.
Senza profondità storica non si capisce niente del mondo, meno che mai si capisce la realtà della Palestina contemporanea, che invece “Vita appesa”, grazie a uno sguardo che insieme al presente comprende il passato, ci restituisce in tutta la sua complessità.
Ci sono tre generazioni in “Vita appesa”.
C’è la generazione delle donne e degli uomini costretti a lasciare le loro case nel 1948 durante il passaggio dal protettorato britannico al controllo israeliano. E’ la Nakba, la catastrofe, cominciata in realtà nel novembre del 1947 con l’approvazione da parte dell’Onu del Piano di partizione della Palestina e proseguita durante e dopo la guerra arabo-israeliana del 1948 innescata dalla nascita dello Stato di Israele. È anche e soprattutto una grande migrazione, la Nakba: decine di migliaia di persone che dai territori passati sotto il controllo israeliano si muovono verso la Giordania, il Libano, la Siria, l’Arabia Saudita e Gaza, il cui territorio si riempie di campi profughi destinati a diventare permanenti.
C’è poi, in “Vita appesa”, una seconda generazione, quella che a Gaza e nel resto della Palestina ha dovuto affrontare per decenni una situazione di sostanziale apartheid nel quadro di un conflitto permanente con lo stato ebraico e con le sue mire espansionistiche. Conflitto che né gli accordi di Camp David del 1978 tra Sadat e Begin né gli accordi di Oslo del 1993 tra Arafat e Rabin sono riusciti a comporre. Conflitto che ha avuto il suo apice nella prima Intifada, cominciata nel 1987 e durata sino agli accordi di Oslo.
C’è infine, nel libro di Atef Abu Saif, una terza generazione, quella della seconda Intifada, cominciata a Gerusalemme nel settembre del 2000 dopo il fallimento del vertice di Camp David tra Arafat ed Ehud Barak e proseguita in tutta la Palestina sino al 2005. È la generazione che a Gaza, con le elezioni del 2006, vinte da Hamas e perse da Al Fatah, ha dovuto fare i conti con l’affermarsi dell’egemonia politica e ideologica del radicalismo islamico incarnato da Hamas e con la crisi di consenso non soltanto di Al Fatah ma anche dell’Autorità nazionale palestinese nata nel 1993 con gli Accordi di Oslo.
Questo il quadro storico.
Veniamo ora al racconto
Atef Abu Saif sceglie la narrazione in terza persona. E questo gli consente di dare alle pagine un respiro corale: una comunità intera, quella del campo profughi dove vivono o hanno vissuto i personaggi, diventa protagonista del racconto. È però il punto di vista dell’ultima generazione palestinese a essere privilegiato.
Siamo a Gaza nel 2013 e il personaggio centrale è Salim. Salim ha lasciato Gaza per fare l’università in Europa, fuori dalla Striscia: prima in Gran Bretagna e poi in Italia, a Firenze. È andato via per trovare un’alternativa di vita rispetto a Gaza, a ciò che Gaza è diventata soprattutto dopo il 2006. Ha davanti a sé la possibilità di costruire una brillante carriera universitaria, ma è costretto a tornare nella Striscia dalla morte del padre Nai’m, ucciso da una pallottola vagante sparata da un soldato israeliano. Nai’m è nato nel 1948 nello stesso giorno in cui l’esercito con la stella di Davide ha bombardato e occupato Giaffa, la città nella quale vivevano i suoi genitori, Ibrahim e Aisha, e dalla quale Ibrahim e Aisha fuggono sotto le bombe israeliane subito dopo che la donna ha partorito Nai’m. Da Giaffa i nonni di Salim raggiungono, con un viaggio duro e drammatico, un campo profughi a Gaza. La Nakba ha effetti devastanti. La famiglia di Ibrahim si disperde: i tre fratelli fuggono in Giordania, in Cile e in Cina. Soltanto una sorella raggiunge Gaza. Nella Striscia Nai’m, come tutti gli altri profughi, deve inventarsi una vita. Fa il tipografo, si sposa con l’amatissima Amna che lo lascia vedovo sulla soglia di 50 anni e oltre Salim ha un altro figlio maschio, Selem, incarcerato dagli israeliani durante la prima Intifada e inserito tra i prigionieri pericolosi che nessuno sa quando e se saranno liberati. E ha due figlie femmine, Na’im. Una più grande, sposata in Arabia Saudita, e poi Samar, la più piccola, che fa il primo anno di università. Una famiglia, insomma, che passa attraverso la storia di Gaza dal 1948 a 2013, cercando una normalità di vita difficile, impossibile, viste le circostanze.
Tornato in patria, Salim si trova davanti una Gaza nella quale fa fatica e riconoscersi.
Ritrova Nasr, suo cugino e compagno di infanzia con il quale ha lanciato pietre contro i soldati di Israele durante la seconda Intifada. Lo trova chiuso in una rigidità politica e ideologica che sacrifica ogni aspetto della vita alla militanza contro gli occupanti israeliani.
Salim ritrova Giaffa, una ragazza con la quale aveva avuto una storia d’amore prima di partire da Gaza e che ora lavora per un’organizzazione umanitaria. Rinasce tra i due un legame, ma tormentato, difficile.
Salim ritrova Yasser, un altro coetaneo, che per vivere fa il giornalista. E vive bene dal suo lavoro, perché Gaza è diventata un’enorme fabbrica di notizie, da vendere con buoni compensi alle agenzie di stampa internazionali.
Salim ritrova i figli di Wasfi, anziano portavoce della comunità i cui figli trasformano il negozio di generi alimentari del genitore in uno store che vende cellulari e computer di ultima generazione.
Salim ritrova un altro coetaneo, Khamis, che fa il funzionario del ministero degli Interni del governo islamico che regge Gaza e, soprattutto, è diventato un uomo d’affari che fa i soldi, molti soldi, con la grande distribuzione e con il commercio di merci estere attraverso i tunnel scavati nel sottosuolo della Striscia.
Nasr, Giaffa, Yasser, i figli di Wasfi, Khamis. Tutti giovani che cercano di aprirsi una strada nella realtà della Gaza contemporanea. Una realtà che in Occidente vediamo poco, perché offuscata da stereotipi mediatici in cui prevalgono la guerra e i suoi terribili effetti di morte. Una realtà piena di contraddizioni: l’autoritarismo spesso violento del governo e degli apparati di sicurezza, un autoritarismo che convive con l’economia di mercato; la religione come pratica non sempre spontanea e spesso imposta; il restringersi degli spazi di libertà per le donne; il consumismo, le auto che scorrono in un traffico caotico su strade e viali su cui si aprono boutique di lusso e dove chi può corre a comprarsi l’ultimo modello di smartphone importato attraverso i tunnel dall’Arabia o dagli Emirati; le speculazioni edilizie legate alle lottizzazioni che accompagnano l’espandersi della città e alla nascita di grandi centri commerciali che sostituiscono le tradizionali botteghe di piccoli commercianti e di artigiani; le organizzazioni umanitarie, non sempre capaci di incidere sulle cause profonde dei problemi drammatici che sono chiamate ad affrontare.
In tutto questo, la vita palpita nel romanzo calda e potente sebbene “appesa”. Qui sta la forza vera del libro. Aver saputo cogliere il flusso della vita, la sua incoercibile forza, al di sotto della superficie di eventi storici che vorrebbero negarla o mortificarla, è il pregio maggiore del romanzo di Atef Abu Saif. La vita scorre nel libro come un grande fiume di affetti e di sentimenti. E donne e uomini vorrebbero, alla fine, semplicemente essere felici; felici contro la Storia, contro l’orrore attraverso il quale la Storia, con le sue logiche di potere e di morte, tende a rinchiudere il desiderio di felicità degli esseri umani.
Pochi giorni fa qui a Sassari è stato proiettato il documentario del regista Andrea Segre “Noi e la grande ambizione”, che esplora l’impegno e la partecipazione delle giovani generazioni alla luce del film precedente di Segre, “La grande ambizione”, dedicato, come sappiamo, alla vicenda umana e politica di Enrico Berlinguer. In questo nuovo film Segre ha inserito una scena lasciata fuori dalla pellicola precedente, una scena in cui l’attore che impersona Berlinguer, il bravissimo Elio Germano, legge uno degli ultimi discorsi del segretario del Partito comunista italiano. Il discorso comincia così: “Gli esseri umani sono fatti per essere felici: al servizio di questa vocazione deve essere la politica”. Alla luce di ciò che avviene oggi nel mondo, a partire dalla Palestina, credo che non si possa immaginare frase più appropriata e, se mi consentite, più rivoluzionaria di questa.


