Come mi ha influenzato Antonio Pigliaru. Il codice della vendetta e gli ordinamenti giuridici

di Giuseppe Bandinu

L’influenza di Antonio Pigliaru

Il 1969: ricordi, la lingua, la scuola.

Del 1969, anno della morte di Antonio Pigliaru, ho dei ricordi limitati: di lui, non sapevo nulla e non ricordo nulla.

Avevo 7 anni, in prima elementare, parlavo l’italiano da pochi mesi, e fino ad allora mi ero sempre espresso prevalentemente in sardo, in famiglia e per strada.

A scuola imparavo a parlare e scrivere in italiano e imparavo persino che avevo un nome diverso. Fino all’età di 6 anni mi chiamavo Peppeddu Chessa, il cognome della mia bisnonna, mentre a scuola mi chiamavo Giuseppe Bandinu.

Per un’istituzione come la scuola mi chiamavo in un modo, per la mia comunità mi chiamavo in un altro.

Dicevo, non ricordo nulla di Antonio Pigliaru di quell’anno, né della rivolta degli studenti dell’anno prima nelle università, né della guerra in Vietnam, tutti avvenimenti di cui leggerò qualche decina di anni dopo.

Infanzia a Bitti: comunità chiusa.

Vivevo a Bitti, a dieci chilometri da Orune, Barbagia profonda, dove Antonio Pigliaru aveva verificato e raccolto il codice della vendetta. Non c’era la televisione e il nostro orizzonte esistenziale si esauriva con la fine del territorio del paese.

Le taglie: i banditi.

Però uno dei ricordi indelebili che ho ancora oggi impresso nella mente è che nella piazza del paese, sul muraglione sotto la chiesa, c’erano tanti manifesti con le effigi di uomini poco più che ragazzi, cresciuti anzitempo, e sotto quei visi e quei nomi, delle scritte: 10 milioni, 5 milioni, 2 milioni.

Quelle somme erano le taglie poste sulla testa dei banditi, e il ministero degli interni ne prometteva il versamento a chiunque ne avesse facilitato la cattura.

Ricordo che i giovani pastori, ventenni, trentenni, ci regalavano le caramelle se noi bambini fossimo riusciti a strappare quei manifesti dal muraglione per ridurli a brandelli, cosa che noi bambini facevamo e che qualche settimana dopo ricomparivano sui muri e noi, puntualmente, di nuovo, li strappavamo.

Ovviamente, stando attenti ai carabinieri che giravano nel paese con le jeep, ma per fortuna la struttura architettonica del centro storico del paese, fatta di vicoli stretti e strettissimi, ci faceva gioco facile per sgattaiolare dove le macchine dei carabinieri non riuscivano a passare.

Pedagogia diffusa in paese.

La pedagogia comune del paese prevedeva che chiunque ci potesse rimproverare per strada, qualunque persona adulta poteva richiamarci se vedeva nei nostri comportamenti qualche azione che si discostava dal sistema dei valori condiviso dalla comunità.

Era una pedagogia diffusa, tutti gli adulti del paese, uomini e donne, educavano i bambini, non solo i familiari.

“Stranamente”, quando strappavamo quei manifesti delle taglie dal muro, i “grandi” giravano la faccia dall’altra parte, e oggi mi pare facile attribuire ai loro sguardi una smorfia che in realtà era una sorta di sorriso compiaciuto.

Il nostro obiettivo era avere le caramelle, ma contestualmente scoprivamo che, per i ragazzi più grandi di noi, quelle facce stampate diventavamo simboli positivi, di giovani pastori adulti che erano alla macchia per lo stato, ma non per la comunità pastorale di cui erano parte integrante.

I giochi dei bambini: banditi e soldati.

Noi bambini praticamente vivevamo per strada, e ci dedicavamo al gioco. Fra i vari giochi a cui ci dedicavamo, ce n’è uno che, adesso me ne rendo conto, non era altro che l’iniziazione alla guerra, ma solo che la guerra non veniva fatta fra stati diversi, ma la si combatteva tra banditi e soldati.

Al mio paese questo gioco si chiamava in sardo “bannitu e sordatu”, banditi e soldati, e si giocava con due squadre, estratti a sorte, ma nessuno di noi voleva far parte della squadra dei soldati, ci volevamo tutti banditi.

Il gioco consisteva nello sfuggire alla ricerca dei soldati e quando si era braccati nell’ingaggiare una battaglia contro di loro per sfuggire alla cattura.

Anni dopo, leggendo i pedagogisti scoprirò che il valore del gioco andava oltre l’aspetto ludico e diventava apprendimento della vita adulta.

Hobsbawm: il banditismo sociale.

E leggendo lo storico inglese Eric J. Hobsbawm imparerò che il banditismo, anche quello sardo, che lui definiva sociale, era stato un fenomeno presente con caratteristiche più o meno uniformi in tutto il mondo. E Hobsbawm dimostrava quello che io stavo imparando nella mia comunità, ossia che il bandito una figura in continuità con il suo contesto sociale pastorale e da questo veniva protetto.

Negli anni ‘60 del ‘900, in Sardegna, c’erano circa130 banditi.

Nella nostra coscienza collettiva di bambini si incuneava quel pensiero, che forse nella vita da adulti avremmo potuto un giorno avere a che fare anche con aspetti avversi della vita che avrebbero richiesto forza e intelligenza nell’affrontarli.

E scoprivamo che tutti i nostri comportamenti rispondevano a dei valori di un complesso di regole non scritte che apprendevamo in famiglia, per strada e in campagna, e che confliggevano con quasi tutto quello che ci stava insegnando la scuola.

Scuola ufficiale e scuola alla macchia: l’ovile.

La scuola, non solo ci aveva cambiato il nome, ci aveva vietato di parlare in sardo, ma ci insegnava che c’erano le leggi, la maestra, la bandiera italiana, la preghiera la mattina in classe, le istituzioni, di cui fino ad allora sapevamo poco o nulla, che ci impartivano dei comandi imperativi.

Non di rado, quindi, da quella scuola, ancora così gerarchica e autoritaria, ci capitava di assentarci.

Una notazione linguistica: il termine che indicava quella attività che in italiano chiamiamo “marinare la scuola”, in lingua sarda si diceva “essire a bannitare”, farsi bandito.

E vi era un luogo dove andavamo per sfuggire alla scuola, ed ovviamente era la campagna, dove c’era l’ovile, una scuola alla macchia come l’ha definita Pigliaru, dove si insegnava la vita.

Andarsene in campagna, presso la scuola alla macchia, era un’alternativa pedagogica alla scuola ufficiale, significava optare inconsciamente per una scelta, preferire la propria scuola, bandita rispetto a quella ufficiale, perché in fondo, ad essere al bando non erano solo quei ragazzi che vedevamo effigiati in quei manifesti, ma la comunità pastorale che li esprimeva.

Louis Althusser e gli AIS, Michel Foucault e la bio-politica.

Qualche decina di anni dopo, leggendo due filosofi francesi, Louis Althusser e Michel Foucault, avrei scoperto, dal primo, che esistevano gli apparati ideologici di stato e la scuola ufficiale era quello fra i più importanti, per utilizzare una sua categoria d’indagine, e dal secondo, avrei scoperto il piano delle relazioni sociali, in una prospettiva bio-politica, dove la rete degli enti dello Stato, gestivano i rapporti tra il potere politico e la sfera della vita dei cittadini, realizzando pienamente un controllo sociale pervasivo.

Bitti: 5.000 abitanti e 50.000 pecore: il mito del pastore.

Bitti aveva, negli anni ‘60 del ‘900, circa 5.000 abitanti e un patrimonio ovino di 50.000 pecore.

Il campione della nostra comunità, ovviamente non solo economico, ma soprattutto culturale, era il pastore. Nella figura del pastore si compendiava il mito ideologico rappresentativo di tutta la comunità: tutto il buono e il giusto era rappresentato dal pastore.

Il balente, la figura capace di rispondere a qualunque avversità con forza e intelligenza.

Erano tutti elementi che formavano una pedagogia di frontiera.

E così, personalmente, finita la scuola dell’obbligo, a 14 anni, non ebbi nessun dubbio e scelsi di “essere pastore” e abbandonai gli studi, scelsi la scuola alla macchia piuttosto che quella ufficiale.

“Essere pastore”.

Ho detto volutamente “essere pastore”, “sono pastore”, invece che “fare il pastore” perché in sardo si dice così, rimarcando l’essere e non il fare.

E in sardo, in Barbagia, quindi, dire “sono pastore” rimanda all’identità di essere uomo.

Perché il pastoralismo, in Barbagia, ha costruito una civiltà millenaria, lo ha fatto con tutti i sacrifici che fanno i popoli nel corso della storia per rimanere devoti alla propria alla propria concezione di vita, alla propria identità, alla propria Weltanschauung.

La linguistica, la semiotica, scoprirò sempre dopo, mi insegneranno che la lingua è anch’essa codice, codice valoriale.

Così come lo studio della semantica mi avrebbe insegnato che quando in sardo dicevamo la parola “bandito” non attribuivamo a questo termine un significante negativo, tutt’altro.

Oppure, quando, oggi, in lingua italiana dico e scrivo la parola “giustizia”, mi riferisco forse al valore più alto e più positivo a cui tutti i consociati dovrebbero tendere; se dico e scrivo lo stesso termine in lingua sarda, “giustissa”, di contro, con valenza semantica negativa, mi riferisco ai carabinieri, all’apparato repressivo.

L’ovile: lavoro e vita.

E l’ovile, scoprii nei 10 anni futuri in cui anche io fui pastore, non è solo unità produttiva economica, non è solo luogo dove nasce il formaggio, la lana o la carne, destinati alla vendita, ma è soprattutto scuola di vita per i giovani pastori.

Nell’ovile, avrei notato in quegli anni, non vi era distinzione tra il lavoro vero e proprio, la mungitura o la conduzione del gregge al pascolo, e quei momenti che apparentemente sembravano di svago o di riposo.

Il pastore, sostanzialmente, tutto era meno che l’homo oeconomicus della teoria economica classica. Il pastore non basava le sue scelte sulla valutazione della sua personale "funzione d'utilità".

Per il pastore sedere sotto un albero e seguire il suo gregge con gli occhi, imparare a riconoscere le costellazioni del cielo, capire il vento che stesse soffiando, prevedere la pioggia o la neve, non era meno importante del momento in cui si mungeva il gregge e si produceva il formaggio: le prime attività erano importanti quanto la seconda.

In sintesi, non vi era differenza tra lavoro e vita.

L’ovile: la cultura orale e la cultura colta.

La sera, in campagna ci si riuniva con i pastori degli ovili vicini, noi ragazzi in religioso silenzio, ascoltavamo con l’orecchio teso, i racconti dei pastori anziani, e immancabile la lettura del giornale quotidiano che il pastore che quel giorno si era recato in paese aveva portato all’ovile.

Manco a dirlo, le pagine del giornale quotidiano preferite erano quelle della cronaca dove si raccontavano i processi penali che si celebravano nei tribunali di Nuoro, di Sassari e Cagliari.

Allora i giornali riportavano per esteso le arringhe degli avvocati che venivano lette dal pastore all’ovile davanti a una platea incantata.

Quanto erano bravi questi avvocati a giocare con le parole!

Perché, nell’ovile, in qualche modo, si partecipava anche alla cultura “colta”, si leggeva, girava qualche libro, le biografie, le poesie sarde, custoditi con maniacale attenzione.

E c’era pure qualche pastore anziano che rimandava interi canti della Divina Commedia o interi passi della Bibbia a memoria.

Perché si intuiva che nelle pagine scritte di un libro o in un articolo di giornale c’era un codice di cui bisognava impadronirsi, per non essere relegati in una condizione di minorità nel confronto – scontro con le istituzioni.

Anche io iniziai a riempire il mio ovile di libri.

Leggevo di tutto, nei momenti in cui ero libero dal lavoro, con la voracità e la confusione tipiche dell’autodidatta, dai fumetti ai libri, alla saggistica storica, alle poesie in sardo.

Lettura di Pigliaru.

Ed arrivò anche Pigliaru, avevo 16/17 anni, all’ovile, e fu una scoperta folgorante e quella lettura mi cambiò veramente la vita.

Lessi per la prima volta il codice della vendetta e devo dire che a questa prima lettura ne compresi solo una piccola parte.

 Era un testo impegnativo, difficile da comprendere, non avevo strumenti culturali per affrontare un libro così, per comprenderne appieno tutti i risvolti giuridici e filosofici.

Due cose però avevo imparato da quella prima lettura del codice di Pigliaru:

1) acquisii la consapevolezza che quel testo dava dignità culturale alla nostra comunità pastorale, perché diceva che anche noi avevamo le nostre regole che avevano dignità di norme giuridiche;

 2) nacque in me, così, la curiosità intellettuale per il mondo del diritto “colto” e questo condizionerà la mia vita futura, come vedremo.

Negli ovili però non vi era quella che, raccontata così, potrebbe sembrare una vita idilliaca, anzi.

Ordine pubblico e diatribe dei pastori: i probomines.

Le campagne erano battute dai banditi, a cui i pastori davano assistenza e i carabinieri la caccia, c’era la piaga dell’abigeato, così che i pastori erano costretti a seguire il bestiame anche di notte per evitare i furti. C’erano le divergenze che nascevano tra pastori confinanti di pascolo, per i più svariati motivi, che richiedevano una soluzione.

I pastori, poi scoprirò con Pigliaru, a tal fine, avevano costruito i loro istituti giuridici con un’enumerazione minuziosa delle offese col diritto penale sostanziale, mentre con un elementare diritto procedurale, avevano istituito anche i loro giudici.

 Questi giudici popolari, detti in sardo “probomines”, dirimevano le controversie che nascevano nelle campagne o intervenivano dopo lo scoppio dei conflitti per cercare di far cessare le vendette, con lo strumento delle paci, attraverso un percorso di mediazione tra le parti in dissidio, arrivando a un componimento delle ostilità.

La giustizia riparativa.

Curiosamente, negli ultimi 20/30 anni, in tutto il mondo, nella dottrina penalistico - criminologica, è emersa la necessità di pensare a modelli nuovi e alternativi di giustizia penale.

Nella ricerca, si è ormai da tempo abbandonato il paradigma eziologico, come si è abbandonato il paradigma riabilitativo.

Oggi si assiste alla nascita di un nuovo paradigma, definito con l’espressione anglosassone di “restorative justice” declinata in italiano come “giustizia riparativa”.

Il modello della giustizia riparativa propone quale obiettivo primario dell'intervento penale, la restaurazione del legame sociale, attraverso la riparazione del danno subito dalla vittima, risaltando l’importanza della comunità nel risolvere il conflitto che nasce dalla commissione di un reato.

Il reato è concepito come offesa non solo nei confronti dello stato, ma soprattutto come offesa nei confronti della vittima e della società.

La giustizia riparativa gestisce il reato, dunque, non solo con la pena, ma soprattutto cercando di recuperare il reo che si riappacifica con la vittima, in un procedimento di mediazione che si realizza in un patto tra le parti che verrà sottoposto all’approvazione del giudice.

Ed io, oggi, pastore, criminologo, avvocato e giudice, non posso che riflettere, compiaciuto, che il sistema della giustizia riparativa, non è altro che quel sistema della mediazione tra le parti in conflitto che ponevano in essere i nostri giudici popolari, che noi in Barbagia avevamo da secoli.

La scelta: ritorno agli studi.

Personalmente, quindi, dopo 10 anni di pastorizia, grazie a Pigliaru, cambiai la mia vita, e andai a fare il liceo.

Tutta quella voglia di cultura di vorace lettore, la riversai sui libri, mi diplomai in due anni e, scelta obbligata, manco a dirlo, mi iscrissi all’università in giurisprudenza.

Tesi in criminologia, sul banditismo sardo, argomento che avevo sostanzialmente imposto al docente che in sede d’esame mi aveva chiesto di fare la tesi con lui, di cui buona parte dedicata allo studio del codice di Antonio Pigliaru.

Il giorno della discussione della tesi di laurea ci andai dalla mandria dove prima avevo munto il gregge.

 Dopo, presi la specializzazione in diritto penale e criminologia, lambendo anche qui, le riflessioni di Pigliaru, soprattutto sulla pena e sul sistema penitenziario.

Poi negli anni, si susseguirono diverse letture del codice della vendetta, arricchite anche dalla prospettiva linguistica e antropologica, poiché intanto mi laureai anche in lettere moderne.

Università di Roma: Sergio Cotta e Pietro Rescigno.

All’università La Sapienza di Roma, ebbi due docenti, Sergio Cotta e Pietro Rescigno, che conobbero Pigliaru, il primo di filosofia del diritto e il secondo di diritto civile, che, entrambi, in sede d’esame, notando la desinenza del mio cognome, mi chiesero se avessi studiato Pigliaru e il codice della vendetta, Salvatore Satta e Gonario Pinna, e mi chiesero anche del perché la Barbagia producesse giuristi di così alto valore.

Io rispondevo partendo dalla nostra storia di popolo che si era fatto un proprio ordinamento giuridico nei secoli e quindi negli studiosi sardi nasceva l'interesse culturale verso gli altri ordinamenti giuridici su una base di confronto, nell'ambito della pluralità degli ordinamenti e della consuetudine, sulla scia degli studi di Santi Romano e Norberto Bobbio.

In sostanza, quello che era successo a me.

Insomma, con Cotta e Rescigno ho passato ore a discutere di pluralismo degli ordinamenti giuridici, di vendetta e pastori, invece che dei testi d’esame.

Il lavoro: avvocato come mediatore e giudice come probomine, l’insegnamento dell’ovile e di Pigliaru.

Poi, nei trent’anni di lavoro, non ho mai abbandonato Pigliaru, ho fatto ricerca e attività didattica all’università di Roma La Sapienza, presso la cattedra di criminologia, ho fatto l’avvocato, il giudice militare, il giudice di sorveglianza, ora il giudice minorile, e in queste due ultime attività ho spesso curato pratiche di mediazione e di giustizia riparativa tra colpevoli e vittime, portate a termine positivamente anche grazie a quella robusta formazione che mi hanno insegnato i giudici popolari negli ovili e poi forgiata dagli studi su Pigliaru e altri.

Il saluto del carabiniere.

Oggi faccio il giudice minorile al tribunale di Roma, processo i ragazzi che commettono reati, e la mattina quando arrivo al lavoro, sulla porta del tribunale, il carabiniere mi saluta militarmente e io, dentro di me, mi ricordo di quando, negli anni ‘60 del ‘900, i carabinieri che ci sorprendevano a strappare i manifesti delle taglie dei banditi, ci inseguivano, ma noi bambini riuscivamo a rifugiarci nei vicoli stretti del paese per sfuggire ai loro inseguimenti in macchina.


© Nico Orunesu "Banditi " acquarello e tempera, 2020

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Il codice della vendetta alla luce della teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici.

In primis, plaudo alla casa editrice Il Maestrale per questa nuova edizione del Codice della vendetta, arricchita degli scritti inediti e di una mirabile nuova introduzione del Professor Paolo Carta, che ne sottolinea aspetti nuovi e importanti.

Testo sulla scelta.

Giustamente, scrive il Professor Carta, il codice della vendetta è anche un libro sulla scelta, e soprattutto, è un libro su una scelta che diventa esercizio di libertà.

E qui dobbiamo sottolineare che il codice della vendetta lascia dunque all’uomo barbaricino una alternativa di scelta, dunque anche di non vendicarsi, ma tale uomo deve pur sempre aver dato, nel corso della sua vita, una prova di fedeltà a codici altri, anche morali e religiosi, e non solo giuridici.

Pertanto, lo stesso codice della vendetta parte da una base di riconoscibilità di codici “altri da sé” rispetto ad esso ed ha quindi un piano in cui, pertanto, gli è correlato lo stesso concetto di pluralismo giuridico.

Perché il giudizio che la comunità barbaricina pone in essere, non nega la natura di ordinamento giuridico a quello dello stato o di altre comunità, ma li riconosce come ordinamenti degli altri, non idonei a regolamentare la propria vita consociata.

Homo e vir: virtù e fortuna.

E su questa scia, non si può non sottolineare una notazione linguistica di Pigliaru, quando ricordava che in sardo è sconosciuta la distinzione articolata dalla lingua latina tra homo e vir, pur se la parola omine, rimanda più alla valenza semantica del vir, piuttosto che dell’homo.

Perché tale scelta, nella fedeltà al codice della vendetta, non può prescindere da un modello di uomo che, date le difficili condizioni di vita delle campagne, doveva dunque essere unitamente forte e razionale, capace di dominare la fortuna con la propria virtù (Machiavelli).

 La vita delle comunità pastorali barbaricine, infatti, per Pigliaru, si era caratterizzata nei secoli come un’esistenza all’insegna della resistenza.

Esistere per resistere”, scriveva l’intellettuale sardo, in uno degli studi complementari al codice, a proposito della dura vita dei pastori nelle campagne.

Ma tale virilità è necessaria anche per chi effettuava la scelta della rinuncia alla vendetta, affinché venisse accettata e rispettata dalla comunità, purché tale scelta non fosse stata dettata da opportunismi personali, ma dalla fedeltà ad altri valori  e dall’aver dato, durante la propria vita, prova di coerenza ad altri valori, per un superiore motivo etico-morale.

Giuridicità della vendetta.

Partendo quindi da questo primo dato certo, che è insito nel codice della vendetta, sulla pluralità degli ordinamenti giuridici, registriamo innanzitutto la giuridicità del codice della vendetta.

Nel codice della vendetta, per chi sceglie e quindi decide di essergli fedele, queste pratiche della vendetta erano però sganciate da reazioni istintive di carattere individualistico, ma promanavano dalla comunità.

Pubblicità e obbligatorietà della vendetta.

Registriamo, dunque, che vi è il dovere-obbligo da compiere e vi è un’aspettativa sociale affinché questo venga realizzato.

Ne discende dunque la dimensione della pubblicità e dell’obbligatorietà della vendetta.

E tale pubblicità del codice, la intendiamo nel senso proprio della dimensione rientrante nel giuridico, dunque dovere-obbligo cogente per l’appartenente a quella comunità.

E dalla pubblicità promanano anche le altre caratteristiche dell’attuazione della vendetta: i concetti di

 proporzionalità tra offesa e vendetta;

di prudenza, poiché è necessario l’accertamento della responsabilità dell’offensore a titolo di dolo;

 di progressività dei mezzi, più o meno gravi a seconda della gravità dell’offesa.

La vendetta era intesa quindi come propria da tutta la comunità e non come azione individuale: il vendicatore diventava organo della comunità perché vendicare l’offesa era un interesse pubblico e in quanto tale da regolare giuridicamente.

Vendetta nella storia: azione individuale e pena.

Una prima distinzione importante, poiché prima di Pigliaru l’agente che poneva in essere l’azione vendicativa, nel dibattito culturale che ruotava intorno alla categoria della vendetta, era il singolo individuo, quindi contrapposta, quasi antinomica, alla pena pubblica.

Si trattava di un problema ermeneutico che si poneva in tutto il mondo, a tutte le latitudini, e in ogni epoca storica, a partire dal codice di Hammurabi, con la legge del taglione, al diritto romano arcaico, dove la ultio diventava talio, e dove la legge del taglione veniva positivamente affermata nelle Dodici Tavole, del 450 a.C. (Tavola VIII sugli illeciti).

Quanto fosse importante per la cultura romana il concetto della ultio che diventa talio è dato, tra l’altro, dalla divinizzazione della vendetta nel dio e dalla aggettivazione di questo: Marte, dio della guerra, è ultore, è vendicatore.

E anche nel mondo religioso, nell’Antico Testamento, nel Levitico, è prescritto lo jus talionis, e anche nel dirittoislamico coranico era accolto tale principio.

E ancora, nella più antica cultura greca, quella che viene più o meno raccontata nell’Iliade, i rapporti tra gli uomini venivano regolati con un complesso sistema di azioni e reazioni che erano basate sulla vendetta.

Sul principio della vendetta, Menelao e Agamennone trascinano i principi greci alla guerra di Troia, così come Achille fa la guerra per vendicarsi dell’uccisione di Patroclo; e così Ulisse si vendica dei Proci che gli insidiano la moglie e il potere, quando torna ad Itaca.

La vendetta individuale diventa pena pubblica: Dracone.

Dracone, mitico legislatore ateniese (anche se i moderni grecisti, prima fra tutti Eva Cantarella, propendono per la storicità del personaggio), nell’anno 621 a.C., ad Atene, emanò la legge che segnava la nascita del diritto penale in Grecia Antica.

Con Dracone dunque si ha un primo tentativo di attrarre la vendetta nell’alveo del giuridico: la legge poneva dei limiti alla vendetta dei singoli e istituiva dei tribunali pubblici e imparziali, che giudicavano le azioni vendicative degli individui, pur se, nel caso dell’omicidio, lasciava al gruppo sociale della vittima l’attuazione della pena del taglione.

Siamo in un periodo di transizione.

Nel diritto greco del periodo classico a seguire, dunque, vendetta singola e pena pubblica sono dunque due dimensioni che si pongono in rapporto di antinomia.

Pigliaru: vendetta come azione pubblica.

Con Pigliaru scopriamo che la vendetta è invece azione pubblica.

È un dato di non poco conto!

Il positivismo antropologico, con una speculazione che avrà nel diritto codificato anche importanti influenze (basti pensare solo al sistema del c.d. “doppio binario” del codice penale italiano, dove la misura di sicurezza come sanzione è entrata a pieno titolo nei codici positivi), insegnava che la vendetta promanava da individui barbari, che compivano azioni delittuose, perché il loro comportamento era insito nelle loro caratteristiche anomale e ataviche.

Insomma, criminali si nasce, non si diventa! (Lombroso).

Teorie bislacche, se non fosse che lo stesso Lombardi Satriani ci ricordava, nell’introduzione al codice della vendetta, che in questo paese il positivismo antropologico non è mai stato compiutamente superato.

Tornando al nostro Pigliaru, dicevamo che il primo dato assodato è che la vendetta barbaricina è azione pubblica e dunque giuridica.

Era fortemente sentita allora e anche dopo mai del tutto sopita, la tesi, in filosofia del diritto, secondo cui il diritto e la giuridicità promanassero solo dallo Stato e le pratiche consuetudinarie non costituissero vero e proprio diritto, ma solamente fatti e regole di costume.

Il normativismo: Hans Kelsen.

Soprattutto per la teoria normativistica del giurista austriaco Hans Kelsen, che definiva sé stessa come scienza pura del diritto, e che analizzava la struttura dell’ordinamento giuridico, non vi era diritto al di fuori delle norme positive codificate.

L’ordinamento giuridico sarebbe uno e uno solo, un insieme di norme disposte secondo una scala gerarchica, facente capo ad un’unica norma fondamentale: la Grundnorm.

E tuttavia, anche nel rigido normativismo, la vendetta veniva qualificata (H. Kelsen: Società e natura; Law and peace) come meccanismo sanzionatorio propriamente giuridico, poiché la si differenziava dalla reazione istintiva di autodifesa, pur se la si relegava a espressione di una comunità primitiva.

Il pluralismo degli ordinamenti giuridici: Santi Romano.

Ma dove lo studio di Pigliaru diventava riflessione più feconda era ovviamente nella sua declinazione degli studi di Santi Romano sulla pluralità degli ordinamenti giuridici, mediata dalle riflessioni di Giuseppe Capograssi sul principio di socialità, cui, peraltro, il codice della vendetta è dedicato, e delle riflessioni della sociologia giuridica di Georges Gurvicth, secondo cui il potere giuridico non risiedeva solo nello stato, perché esso era solo una delle fonti del diritto.

Infatti, col supporto della prospettiva filosofica della teoria dell’istituzionalismo, che studiava la funzione del diritto, Pigliaru sottolineava come la comunità barbaricina fosse una società giuridica, secondo il principio del superiorem non recognoscens, istituzione autonoma e originaria, gruppo sociale organizzato, con un proprio apparato di norme cogenti.

Quindi la comunità barbaricina è istituzione, è società in cui vi è diritto e in questo diritto vi è società, gruppo sociale organizzato.

È quanto esprime il noto brocardo: ubi societas ibi jus, ubi jus ibi societas!

Società dei ladroni e Noi pastori.

Sulla particolarità di questi assunti, studiando essenzialmente il banditismo, è necessario però sottolineare che Pigliaru ci teneva a distinguere tra la “società dei ladroni”, ossia la società illecita che pure, secondo Santi Romano, produceva diritto, dalla società del “Noi  pastori”, accezione più ampia che costruiva giuridicamente la vendetta.

Il principio della pluralità degli ordinamenti giuridici, per Santi Romano, infatti, trovava applicazione anche nel caso delle istituzioni illecite, poiché non vi sarebbe stata, in tal senso, alcuna dipendenza necessaria dall’ordinamento giuridico dello stato, come sostenevano i normativisti, né dalla morale, come sostenevano i giusnaturalisti.

E anche noi, nel nostro inconscio collettivo, spesso, infatti, siamo portati a pensare che il codice della vendetta operi generalmente all’interno di un’organizzazione criminale stabile e organizzata, dove la vendetta si atteggia a strumento di coercizione sia nei confronti dei propri membri, che di quelli esterni alla stessa formazione illecita.

 Avvertiva invece Pigliaru, che la vendetta non ineriva solo alla cosiddetta “società dei ladroni”, ma a quella del “noi pastori”.

E sarebbe stato un gravissimo errore metodologico far rientrare la pratica della vendetta solamente entro i contorni del banditismo, pur se questa ne costituiva uno dei tratti più rilevanti.

Pastore e bandito.

Infatti, noi sappiamo, con Pigliaru, che non era il solo bandito a praticare l’esercizio della vendetta, ma anche il pastore che bandito non era. L’uno e l’altro esercitavano la vendetta perché pastore e bandito appartenevano allo stesso sistema economico culturale, con un’omogenea integrazione del secondo nel mondo sociale e culturale del primo.

Cause del codice della vendetta.

Per Pigliaru, quell’apparato di regole, non scritte ma imperative e cogenti, era l’unica risposta possibile in quel mondo culturale ed economico, costretto ad autoregolamentarsi perché gli ordinamenti dello stato erano scritti per altre realtà.

Non c’era lo stato, e quando c’era era stato repressore, né i suoi enti ad aiutare il pastore nelle sue insicurezze; non vi era un luogo di partecipazione, nessuna stanza di compensazione dove poter esporre le proprie aspirazioni e le proprie esigenze e vederle realizzate o in qualche modo appagate.

La nascita e lo sviluppo del codice della vendetta discendevano proprio dall’esigenza di autoregolamentazione delle comunità barbaricine, poiché non vi era un elemento terzo e imparziale con le sue istituzioni che potesse fare giustizia nelle controversie nascenti dai rapporti interpersonali dei consociati,

La vendetta quindi doveva avere connotati giuridici condivisi da tutto il gruppo sociale e con la sua giuridicità teneva insieme la comunità, anzi era proprio il necessario collante del gruppo sociale organizzato.

La consuetudine: Norberto Bobbio.

L’altra utile chiave di lettura per Pigliaru, era la lezione impartita soprattutto da Norberto Bobbio, sul principio della consuetudine come fonte di diritto.

Ciò, in ragione del fatto che la comunità barbaricina è istituzione giuridica, ma è una comunità senza stato, e quindi non ha trasfuso le sue regole in testi ufficiali, ma appunto nella pratica consuetudinaria.

È assodato, peraltro, come pure il diritto positivo abbia comunque collocato la consuetudine nella gerarchia delle fonti, e in questo senso, diceva Pigliaru, si verificava, da parte dello stato, un’implicita ammissione della pluralità delle fonti e ancora, per conseguenza, una implicita ammissione della pluralità degli ordinamenti.

Nel diritto italiano, come sappiamo, è contemplata nelle preleggi del codice civile, dove è sì considerata come fonte, ma fonte subordinata alla legge.

Comunità senza stato.

Diuturnitas e opinio iuris, decorso del tempo; essenzialità.

Dato differente invece nel codice della vendetta, dove diventava fonte primaria, e non potrebbe essere altrimenti, poiché la comunità barbaricina tramandava le sue regole giuridiche con la tradizione, i racconti, i fatti e le azioni

Della consuetudine, infatti, ricorrevano, i due presupposti dottrinari: il comportamento uniforme (la diuturnitas) e il convincimento della doverosità di quel comportamento (l’opinio iuris) ripetuto nel tempo

Infatti, il decorso del tempo, come diceva Bobbio, era un requisito imprescindibile, requisito esterno, perché solo se il comportamento dettato dalla regola consuetudinaria, veniva ripetuto per un certo periodo di tempo, solo allora la consuetudine assurgeva al mondo del giuridico.

Ma da questa definizione scolastica, la consuetudine, per Pigliaru, per farsi ordinamento giuridico, doveva essere sì comportamento regolare ripetuto nel tempo, ma doveva essere soprattutto obbligatorio, imperativo, efficace, in una parola essenziale.

Il racconto e la memoria: Maxine Hong Kingston.

“raccontare a cinque famiglie”.

Nel codice della vendetta, la pratica consuetudinaria, aveva altresì necessità della voce corale tradizionale che tramandava oralmente i principi cui si ispirava.

La scrittrice sino-americana Maxine Hong Kingston indica che, nella lingua cinese, la parola “vendetta” si scrive con due ideogrammi che vogliono dire, tra i vari significati: “raccontare a cinque famiglie”.

Nel campo semantico di questa espressione, è corollario necessario che la vendetta è racconto, esige di essere tramandata, e la narrazione così diventa memoria e si radica nel tempo.

Come Pigliaru ha felicemente sviluppato, le teorie della filosofia del diritto relative alla pluralità degli ordinamenti giuridici e della consuetudine come fonte normativa, ci sono state di valido supporto per consentirci di porre come un dato acquisito nella ricerca filosofica, la giuridicità della società barbaricina.

Con l’ausilio degli studiosi succitati, Romano e Bobbio e altri, Pigliaru è giunto a poter conseguire e dimostrare la giuridicità del codice della vendetta.

Scelta e interazioni esistenziali nell’uomo barbaricino.

Riprendo, per concludere, la riflessione del Professor Carta che rimanda alla figura del soggetto cittadino barbaricino che agisce nella trama della pluralità degli ordinamenti giuridici che pretendono, iuxta propria principia, di regolare la vita dello stesso soggetto.

Esistenzialismo tragico dell’uomo barbaricino.

Giustamente il Professor Carta, nella sua nuova introduzione al codice, definisce questa condizione come “esistenzialismo tragico dell’uomo barbaricino”, la cui ultima scelta dipende dal grado di pressione che nella sua mente ha la fedeltà all’uno o all’altro codice o l’interazione tra di essi.

La vendetta, il codice, diventano dunque, da quest’ottica, anche un’appassionata analisi della dimensione esistenziale con cui l’uomo barbaricino sperimenta la pluralità degli ordinamenti nella cui rete si svolge la sua vita.

Pigliaru ci ricorda spesso l’atteggiamento esistenziale del cittadino barbaricino che oscilla dalla fedeltà al proprio codice di riferimento, alle sue convinzioni religiose, all’essere cittadino dello stato italiano.

Pigliaru avvertiva, infatti, che, in fondo, il problema centrale della giuridicità del codice era quello della relazione dialettica tra una pluralità di codici e di fonti normative, e in questo senso il codice è già uno studio di carattere pluralistico e relazionale.

Incontro – scontro tra ordinamenti giuridici.

Piano, dunque, di incontro che diventa scontro, compenetrazione di fonti normative diverse, confliggenti quando entrambe dettano precetti e norme cogenti diverse, se non addirittura antinomiche, in relazione allo stesso fatto della vita, posto in essere dallo stesso soggetto.

Il conflitto allora da giuridico diventa esistenziale per il cittadino barbaricino.

E questi ordinamenti giuridici che ben sappiamo, appunto, essere, talvolta, confliggenti su diversi piani della vita concreta degli uomini di una comunità, e in specie di quella barbaricina, in fondo, ci chiamano a fare scelte importanti, mirate a evitare di cadere nell’alienazione esistenziale di un io diviso in questo tragico esistenzialismo barbaricino.

Queste scelte devono essere protese alla costruzione del nostro destino comune, poiché si tratta di scelte di libertà.

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Giuseppe Bandinu, Bitti (NU),1962. Pastore per 10 anni. A 23 ha ripreso gli studi e si è laureato in Giurisprudenza all’Università La Sapienza di Roma, con tesi in criminologia sul banditismo sardo. Ha conseguito la specializzazione in diritto penale e criminologia, il titolo di Avvocato e  un’altra laurea in Lettere e Filosofia, con tesi in storia dell’impero ottomano. È stato borsista e cultore della materia in criminologia all’Università di Roma nelle facoltà di Giurisprudenza e Psicologia, dove ha anche curato attività didattica e di ricerca. È tra gli autori del Manuale di Criminologia utilizzato nell’Università di Roma. Ha conseguito il titolo di Criminologo del Ministero della Giustizia, classificandosi secondo fra 670 candidati. Ricopre gli incarichi di Giudice Onorario del Tribunale di Sorveglianza di Roma e di Giudice Onorario del Tribunale Militare di Sorveglianza su nomina rispettivamente del Consiglio Superiore della Magistratura e del Consiglio della Magistratura Militare. Il Ministero della Giustizia, recentemente, lo ha incluso nella delegazione che rappresenta l’Italia nel progetto della Commissione Europea volto a uniformare le legislazioni penitenziarie dei Paesi membri dell'Unione. Attualmente, dal gennaio del 2014, è Giudice Onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Roma, sezione penale dibattimentale.

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“Antonio Pigliaru” Workshop on Social Norms & Cultural Codes

Il 25 giugno si è tenuto a Cagliari, un convegno internazionale sull'opera di Antonio Pigliaru, a 100 anni dalla nascita. In Aula Maria Lai si sono confrontati sui suoi studi docenti e ricercatori di tutto il mondo. Partendo dalla nuova edizione, il Maestrale 2021, del volume più noto, “Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico” la cui presentazione è stata curata da Paolo Carta, docente all’Università di Trento. Dopo l’intervento del Rettore dell’Università degli Studi di Cagliari Francesco Mola, e di Carlo Mannoni, direttore generale della Fondazione di Sardegna si è tenuta la prima tavola rotonda, moderata da Alberto Bisin della New York University, dedicata appunto al volume “Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico” di Antonio Pigliaru, a cui hanno partecipato, Giuseppe Bandinu, Giudice al Tribunale di Roma, Paolo Carta, Giuseppina De Giudici docente di Storia del Diritto dell’Università di Cagliari, Luigi Ghiso, docente all'Einaudi Institute for Economics and Finance e Giuseppe Lorini, docente di Filosofia del Diritto dell’Università di Cagliari.

Dopo la tavola rotonda il convegno ha continuato la discussione, in inglese, sul tema Cultures oh Honor and socila norms presieduta di Luigi Guiso e gli interventi di Mark Cooney, University of Georgia, Benjamin Enke, e Nathan Nunn,  Harvard University, Fabrizio Adriani dell’University of Lancaster, Tamler Sommers, Univerisi of Houston, Thierry Verdier delal Paris School of Economics. Nel poemriggio, presieduta da Mario Macis della Johns Hopkins Univerisity, hanno discusso del tema Emergence, persistence and evolution of gender norms, Anke Becker, Harvard University, Alice Evans del King’s College London, Pauline Grosjean dell’University of New South Wales, Selim Gulesci del Trinity College Dublin e da Marco Nieddu dell’Università di Cagliari.

Il convegno internazionale è stato organizzato da Alberto Bisin, Claudio Deiana dell’Università d Cagliari, Luigi Guiso, Mario Macis, Francesco Pigliaru dell’Università di Cagliari. I lavori sono stati organizzati con il supporto finanziario della Fondazione di Sardegna. L’organizzazione generale è stata curata dal Rettorato, dal Dipartimento di Economia e da quello  di Legge dell’Università di Cagliari. (g.c.)

© Nico Orunesu "Sa Notte", acquarello e inchiostro, 2017

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