Berlinguer ti voglion bene
di Marcello Flores
Il favore pressoché unanime con cui è stato accolto il film di Walter Veltroni Quando c’era Berlinguer è dovuto in gran parte, credo, al bisogno di riscattare, per lo meno con uno sguardo nostalgico ed emotivo rivolto al passato, la nobiltà della politica in un momento in cui essa ha raggiunto, probabilmente, il livello più basso di gradimento e di legittimazione. Si tratta di un film riuscito?
Il suo scopo, esplicitamente dichiarato quasi all’inizio, è comprendere il successo e il consenso ottenuti dal Pci sotto la direzione di Berlinguer e individuare le cause del suo fallimento successivo. Le considerazioni finali di tanti intervistati, che ripetono più o meno il giudizio lapidario e condivisibile della figlia Bianca – che il partito di fatto terminò la sua storia con i funerali del padre – appartengono però, più che all’analisi e alla spiegazione storica, alla constatazione di un fatto, la cui realtà appare oggi certamente più vera di quanto non fosse allora, e la cui verità ci sembra legittimata proprio dall’impatto emotivo (positivo, pur nel dolore della perdita) che quell’episodio rappresentò, l’ultimo della lunga serie di eventi simbolici ed emotivi nella storia del partito comunista, del movimento operaio, della sinistra.
Veltroni non ha voluto fare né un film storico né un film politico, e ha quindi scelto di non affrontare e sviscerare i problemi più rilevanti dell’epoca di cui parla – gli anni ’70, più qualcuno prima e qualcuno dopo – ma di raccontare la capacità carismatica della personalità che l’ha accompagnato nell’ingresso e nella crescita del proprio impegno politico, il flusso di attenzione, simpatia, stima e affetto che era stato capace di conquistarsi per il suo modo di fare politica più che per i contenuti della stessa. E infatti, pur riassumendo rapidamente diversi momenti ed episodi cruciali di quel decennio tormentato, ce ne trasmette un’idea equilibrata e stabile, pur se incastonata tra l’assassinio di Allende e l’omicidio di Moro, in cui la volontà berlingueriana di trasformare il paese avviene attorno al primato della difesa della democrazia, del coinvolgimento delle grandi masse popolari, del progressivo prendere le distanze dall’Urss pur non rinnegando un’idea «positiva» di comunismo.
Nel suo obiettivo simbolico ed emotivo, pensando soprattutto a un pubblico giovane come quello che ci mostra nelle prime inquadrature – totalmente incapace di collocare il nome di Enrico Berlinguer in una casella della propria coscienza e conoscenza – lo sforzo di Veltroni ha avuto probabilmente successo. Ha costituito un rassicurante «come eravamo» alla sua generazione, ha concesso l’onore delle armi ai sopravvissuti della generazione di Berlinguer (ma non a quella successiva, degli Occhetto), ha instillato nei giovani l’idea, la speranza, l’illusione che la politica possa tornare a essere bella e onesta come era allora. Il film piace, però, proprio perché non si pone gli interrogativi storici da cui un giudizio su Berlinguer – sul politico, non sull’uomo – non può prescindere.
Il compromesso storico, che costituisce l’architrave della strategia berlingueriana, non era solo una proposta difensiva formulata sull’onda della tragedia cilena: era soprattutto il tentativo di rispondere a una crisi italiana la cui radicalità si temeva potesse sfuggire di mano al sistema politico e di far uscire il partito – in una situazione che era quella dinamica del post-’68 – da quella rendita d’opposizione cui, con una continua leggera crescita, si era adattato a partire dalla morte di Togliatti. Questo disegno, che Silvio Lanaro ha definito “tomistico, si potrebbe malignare” aveva la sua debolezza non tanto nella natura consociativa della democrazia che proponeva, ma nella “consonanza perfetta tra le subculture «storiche» dei partiti e le domande sociali che essi esprimono, nel postulare una docilità naturale alle istituzioni e nel giudicare insignificante il problema degli uomini chiamati a tradurre in opera un’ipotesi politica.”
Al di là della convinzione, che la crisi cilena aveva rafforzato, non creato, che per governare l’Italia ci fosse bisogno di un’ampia maggioranza ben superiore al semplice 51% elettorale, il compromesso storico suggeriva un’idea di mediazione perenne capace di impedire la conflittualità o di annullarne la pericolosità quando si manifestasse al di fuori dei canali istituzionali. Proprio in un’epoca in cui la conflittualità sociale aveva creato nuove dinamiche spingendo per accelerare la modernizzazione del paese, la preoccupazione sembrava quella di circoscriverla e bloccarla e di farle trovare rappresentanza esclusiva nei partiti. La resistenza sorda e tenace del Pci contro il referendum sul divorzio, che Berlinguer ripropose anche due mesi prima del voto quando perfino una parte del partito si era ormai decisa a prendere posizione, venne trasformata dopo la vittoria elettorale in un proprio successo (come sembra suggerire anche il film di Veltroni); in una logica che si proponeva di rappresentare tutti i ceti e i gruppi desiderosi di mutamenti più o meno radicali ma solo se questi riconoscevano al sistema politico il monopolio della rappresentanza e della decisione. Il terreno privilegiato su cui si mosse la strategia del compromesso storico non fu dunque la democrazia in senso pieno, ma la democrazia dei partiti.
In anni in cui la partecipazione continuava a crescere e a trovare forme originali e diverse per manifestarsi (dai comitati di base alle associazioni per i diritti civili e a quelle nuove di categoria come magistratura democratica e psichiatria democratica) prevalse la soluzione istituzionale (consigli di quartiere, organi collegiali nella scuola) che in situazioni come la Rai riformata o il nuovo servizio sanitario nazionale significò la rapida lottizzazione politica delle reti televisive e delle Usl. Questa logica condusse a ridimensionare e a permettere che venissero malamente attuate anche riforme importanti come la legge Basaglia o quella per l’equo canone, mentre il compromesso debole sull’aborto avrebbe conosciuto nel tempo difficoltà crescenti per la logica dell’obiezione lasciata in mano ai medici cattolici.
Nel giudicare la progressiva presa di distanza di Berlinguer dall’ortodossia sovietica ci si basa, generalmente, su quello che era il sentire del corpo dei militanti o sugli atteggiamenti degli altri partiti comunisti europei. Berlinguer, che nel luglio 1964 aveva votato contro Togliatti sulla proposta della conferenza dei partiti comunisti, in novembre riassumeva alla Direzione del partito le giustificazioni sovietiche che avevano portato all’esautoramento di Chruščëv ritenendole «serie e valide» e «fondate» le critiche rivolte al padre della destalinizzazione. Nel 1968 aveva parlato di «spinta involutiva» dell’Urss a proposito della Primavera di Praga e l’anno dopo proprio a Mosca avrebbe tenuto un discorso critico alla conferenza dei partiti comunisti. Si trattava di atti di coraggio o di posizioni prese tardivamente e riduttivamente di fronte alla realtà dei fatti e delle conoscenze sul mondo comunista al potere che negli anni ’70 erano ben diverse da quelle degli anni ’50? La ricerca della «terza via», che la fugace stagione dell’eurocomunismo sembrò nobilitare, recideva il legame diretto col leninismo ma proponeva un nuovo confuso collettivismo solidaristico che si nutriva tanto della critica all’individualismo e al consumismo quanto di quella al welfare socialdemocratico. Il welfare, in compenso, veniva costruito in salsa italiana secondo le modalità assistenzialistiche e statalistiche che dettero il via all’indebitamento dello stato come hanno ben raccontato Amato e Graziosi nel loro Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia.
Berlinguer, nel momento della sua investitura ufficiale al XIII congresso nel marzo 1972, volle riaffermare i due capisaldi della tradizione togliattiana: il primato del partito sopra ogni cosa e la necessità dell’incontro tra le grandi forze sociali (cattoliche, socialiste e comuniste), cui aggiunse l’appiattimento istituzionale e la riduzione della democrazia a democrazia dei partiti. La doppiezza storica del partito – fedele sia alla Costituzione e alla democrazia in Italia sia all’Urss sull’arena internazionale – non aveva ormai più ragione di esistere, anche perchè i giovani che si erano avvicinati in massa al partito provenivano da esperienze lontane dal marxismo ortodosso. Rassicurare che il Pci non chiedeva più l’uscita dalla Nato e che sotto il suo ombrello si sentiva più sicuro che dall’altro lato della cortina di ferro era certamente uno scoop giornalistico di cui Pansa poté andare fiero, ma non costituiva più un elemento dirompente nei confronti della maggior parte dei militanti.
Quello che il film di Veltroni non vuole chiedersi, perché avrebbe reso difficile la coerenza e compattezza del film, è perché al culmine del consenso che Berlinguer riceve nel 1975-76 – e che va ben al di là del tradizionale elettorato di sinistra, sfondando al centro e soprattutto nei giovani – egli sia stato incapace di capitalizzare quel risultato importante e per molti aspetti inaspettato. Il Pci, a metà del decennio, si poneva come punto di riferimento non solo di una storica opposizione sociale, ma di tutti i ceti desiderosi di vedere realizzato l’ammodernamento dello stato, lo svecchiamento e la ripresa dell’economia, l’ampliamenti dei diritti civili. Il Pci, per tutti costoro, rappresentava la speranza, grazie anche alla personalità di Berlinguer, alla fiducia che era capace di ispirare, all’onestà e rettitudine che trasparivano con chiarezza da ogni suo gesto e atteggiamento. Ma poteva essere il compromesso con la DC, con un partito che era lo stato e il capitalismo italiano, a costituire la risposta a questa speranza? Quando sarebbe occorsa “una classe dirigente composta da uomini integerrimi, imparziali, disinteressati e competenti. Ma di questa pasta non sono fatti né i notabili democristiani né i dirigenti comunisti: spesso – e i comunisti quasi sempre – privi di una professione che non sia la politica”, che “sono costituzionalmente orbati di ogni senso di responsabilità nazionale.”
È proprio nel momento in cui ha conquistato il massimo consenso che il Pci di Berlinguer riduce sempre più la propria strategia a un accordo di governo con la DC, a qualsiasi condizione. Sulla base di un successo elettorale che sembrerebbe legittimare il compromesso «storico» (Pci e Dc insieme superano il 73% dei voti), si accetta, infatti, a fine luglio 1976, un monocolore Andreotti denso di personaggi imbarazzanti, come scriverà Livio Zanetti su L’Espresso: “Più che un’adunata di dignitari pensosi e statuari, del tipo di quelli che disegnava il Greco nelle sue tele, la compagine ministeriale fa pensare a un corteo di personaggi brechtiani da «Opera da tre soldi», polverosi e obsoleti, vecchi non tanto per anagrafe quanto per usura, intenti a sfilare su un fondale un po’ ammuffito e rappezzato, perfettamente in tono con i loro vestiti, con le loro facce, con la loro biografia non sempre commendevole.” L’astensione del Pci produce come unico risultato la presidenza della Camera a Ingrao. E Berlinguer – che già nella campagna elettorale del 1976 aveva confessato di non poterla svolgere sul tema delle «mani pulite» come l’anno precedente, perchè esisteva anche qualche «magagna nostra» e perché era ormai il cavallo di battaglia della destra – dovrà subire il 9 marzo 1977 alla Camera la difesa a oltranza di Moro contro chi vuole «processare» il suo partito e a favore degli inquisiti per lo scandalo Lockeed, due soli mesi dopo il famoso discorso agli intellettuali al teatro Eliseo a Roma in cui aveva parlato di una «trasformazione rivoluzionaria della società» in arrivo. Come ha scritto Guido Crainz, “tensione utopica e drammaticità erano all’altezza della situazione, ma in stridente contrasto con la politica concretamente praticata ed avallata”.
Il governo di solidarietà nazionale si caratterizzò per quella politica consociativa che consisteva, sostanzialmente, nel cercare di rispondere alle richieste e agli interessi dei gruppi sociali rappresentati dai partiti al governo, senza operare scelte chiare e drastiche e ponendo l’intero carico e responsabilità sulle spalle del debito pubblico e delle future generazioni. Eppure proprio quella politica deluse e frustrò coloro che avevano dato malgrado tutto la fiducia al Pci di Berlinguer nel triennio 1974-76, e radicalizzò tutte quelle forze, soprattutto giovanili, che intendevano incalzarlo perchè si operasse veramente una «trasformazione rivoluzionaria» della realtà. Le colpe della sinistra radicale armata e dell’antagonismo sociale spinto all’estremo nell’aver precipitato, nel giro di pochi anni, la sinistra in una sconfitta e dispersione storica di gran parte del patrimonio di lotte, di ideali, di discussioni che si erano avute nella società italiana dalla metà degli anni ’60, sono state abbondantemente ricordate dagli storici che le hanno analizzate con comprensione e lucidità (Lanaro, Ginsborg, Crainz). Ma attribuire principalmente a esse la responsabilità del fallimento della strategia berlingueriana che prese corpo proprio nei mesi tragici del rapimento Moro e si palesò con chiarezza in quelli successivi, venendo sancita nelle elezioni del giugno 1979 (con la perdita del 4% dei voti, quasi un milione e mezzo), è stata da parte del Pci una giustificazione per evitare di compiere un’analisi e un’autocritica rigorose.
Non è qui il luogo per entrare nel discorso, difficile ma cruciale, dell’atteggiamento del Pci e delle altre forze politiche durante l’epoca del rapimento Moro. Veltroni fa parlare più volte Franceschini, e non si capisce bene perché, dal momento che le sue parole sfuggenti e blandamente giustificatorie non illuminano minimamente la profondità del dibattito, dell’emozione, del coinvolgimento che su temi etici e politici, giuridici e psicologici, gran parte della società italiana condivise con angoscia in quei mesi.
La scelta, da parte di Berlinguer, di abbandonare l’alleanza con la Dc e tornare a una politica tradizionale di opposizione (caratterizzata dal voto contro l’ingresso dell’Italia nel sistema monetario europeo nel dicembre 1978 e dalla fallimentare lotta alla Fiat del settembre-ottobre 1980) non fu accompagnata da alcun ripensamento strategico, “perché l’odore della sconfitta trascina lo stesso Berlinguer a battere le strade familiari, a non avventurarsi più in mare aperto, a rifugiarsi nelle ampie e confortevoli retrovie presidiate dalla classe operaia.”
Proprio nel momento in cui il Psi imboccava una strada nuova rappresentata da un leader poco conosciuto e poco considerato – Bettino Craxi – che in modi contraddittori e pasticciati sembrava comprendere la nuova realtà sociale e culturale che si andava imponendo anche in Italia nell’epoca della Thatcher e di Reagan (pur restando imbrigliato in una visione partitocentrica che non permise mai al suo partito di uscire da una logica di vantaggio tattico immediato), Berlinguer rinculava sull’usato sicuro cui aggiungeva come contributo personale originale il richiamo alla questione morale, che trovò vasta eco nell’intervista di Scalfari su Repubblica a fine luglio 1981. Un richiamo certamente forte e sentito, non solo dalla base del Pci ma da gran parte degli italiani, che però contraddiceva non solo l’alleanza praticata con la Dc di Andreotti ma anche la disinvolta conquista di spazi di potere istituzionale cui anche il Pci, sia pure in modi più ridotti, meno appariscenti e meno avidi, iniziava a cedere.
Sono questi gli anni in cui, come sottolinea il film di Veltroni, Berlinguer sancisce anche la fine della «spinta propulsiva» dell’esperienza della rivoluzione d’Ottobre e prende maggiormente le distanze dal «socialismo reale» in seguito allo stato d’assedio imposto da Jaruzelski in Polonia e alla messa fuori legge di Solidarność. Verrebbe da dire, meglio tardi che mai. Se nel Pci continuava a esistere, sia pure in forme sempre meno ampie, una fede «sovietica» e una mitologia «rivoluzionaria», lo si doveva anche alla mancata o alla scarsa azione educativa che sulla storia dell’Urss e del movimento operaio il partito compiva nei confronti dei propri militanti. In realtà la forma mentale della doppiezza, ideologica e politica, di derivazione togliattiana, non era stata messa realmente in discussione. Tant’è vero che nella risposta al vescovo di Ivrea Bettazzi – un famoso scambio di lettere che fu pubblicato da Rinascita nell’ottobre 1977 (anche se la lettera del vescovo risaliva al luglio 1976) – Berlinguer si guarda bene nello spendere qualche parola sul dramma della Cambogia, che Bettazzi aveva sollevato dopo le prime notizie sui massacri dei khmer rossi e che all’epoca della risposta di Berlinguer erano conosciuti assai meglio (ma trattati dalla stampa comunista come invenzioni imperialiste per screditare lo stato socialista cambogiano).
Gli anni ’70 furono un decennio di transizione, dove la politica italiana avrebbe potuto trovare risposte diverse alle richieste di trasformazione della società, da quelle che effettivamente seppe dare. Berlinguer fu capace, nella prima metà del decennio, di capitalizzare al massimo, grazie anche al proprio personale carisma, quella «strategia dell’obesità», per usare il termine usato da Luciano Cafagna, e cioè l’obiettivo di continuare a crescere senza prospettare un credibile sbocco di potere; quando però provò a rendere concreta la sua proposta strategica nuova – il compromesso storico – non poté fare altro che connotarla come un’alleanza subordinata e al ribasso con una Dc tutt’altro che riformata e riformatrice. E dopo quella fallimentare esperienza non poté che chiudere gli occhi di fronte ai mutamenti profondi della società rifugiandosi in un appello «morale» pur necessario e ineludibile ma da solo totalmente incapace di svolgere un ruolo politico significativo.
Avesse voluto fare un documentario storico, Veltroni avrebbe dovuto affrontare queste problematiche, sia pure dando loro risposte diverse e giudizi meno negativi. Ma il suo scopo è stato quello di favorire un’inversione di tendenza nel modo di rappresentare e pensare la politica. E allora la modalità nostalgico-simbolica con cui ha affrontato la personalità di Berlinguer è stata probabilmente efficace. Anche se è in quegli anni che affondano le radici della successiva debolezza, sconfitta e scomparsa della sinistra come era stata tradizionalmente concepita.
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Marcello Flores, Padova 1945, ha insegnato Storia contemporanea e Storia comparata presso il Corso di laurea in Scienze della Comunicazione dell'Università di Siena, dove ha diretto anche il Master europeo in Human Rights and Genocide Studies. Ha compiuto soggiorni di studio e periodi d'insegnamento a Berkeley, Cambridge, Parigi e Mosca. Ha inoltre collaborato alla redazione delle riviste scientifiche Italia contemporanea e I viaggi di Erodoto (di cui è stato anche direttore) e ha fatto parte del comitato scientifico e del comitato editoriale di Storia della Shoah. La crisi dell'Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo, di cui sono usciti sei volumi per UTET. Sempre per UTET ha curato l'opera in sei volumi Diritti umani. I diritti e la dignità della persona nell'epoca della globalizzazione (2007). Il suo Il genocidio degli armeni (2006), ripubblicato nel 2017 dalla casa editrice il Mulino, è a oggi uno degli studi più esaustivi e documentati su una pagina oscura della storia del Novecento. Tra le sue ultime pubblicazioni spicca il saggio Cattiva memoria. Perché è difficile fare i conti con la storia (2020), in cui si analizza il ruolo della memoria storica nella vita pubblica e il rischio che la sua ridondanza presti il fianco a una lettura strumentale del passato; Il genocidio e Il mondo contemporaneo 1945-2020, usciti entrambi per Il Mulino nel 2021.