Berlinguer e la Sardegna
di Antonello Mattone
I momenti che legano in modo più tangibile la biografia di Berlinguer alla Sardegna sono sostanzialmente tre: il primo fu quello degli anni giovanili, della sua iniziazione democratica e antifascista dei «moti per il pane» del gennaio 1944; il secondo lo vide componente della segreteria regionale del PCI negli anni 1957-1958: una breve permanenza a Cagliari, dedicata all’elaborazione di una nuova strategia politica all’indomani dell’VIII Congresso del partito; il terzo momento coincise con la sua attività di vicesegretario e successivamente di segretario generale del PCI negli anni 1969-1984, e fu contraddistinto dalla definizione di una nuova iniziativa politica per la Sardegna, all’interno della strategia del “compromesso storico” e dell’“unità autonomistica”.
A differenza di Antonio Gramsci e di Emilio Lussu, per i quali la questione sarda e la rivendicazione autonomistica sono state al centro di una lunga riflessione e di un’interrotta elaborazione, per Enrico Berlinguer la Sardegna ha di fatto assunto nella sua esperienza politica una posizione oggettivamente marginale. Infatti, al di là dell’elemento biografico – cioè l’esser nato a Sassari da una famiglia profondamente radicata nel tessuto civile ed aver compiuto nella sua città natale le prime esperienze politiche –, il rapporto con la Sardegna fu inevitabilmente discontinuo (seppur profondo e persistente a livello personale). Ciò è dovuto al fatto che la biografia politica di Berlinguer è slegata da una dimensione regionale, giacché si è caratterizzata sin dagli esordi per una netta collocazione “nazionale”, quale dirigente del Fronte della Gioventù e della Federazione Giovanile Comunista e poi membro degli organi centrali del Pci. In fondo, la celebre battuta di Gian Carlo Pajetta – «di nobile famiglia sarda sin da giovane s’iscrisse alla direzione del partito» – esprimeva spiritosamente questo concetto.
Quando Palmiro Togliatti conobbe a Salerno, nel giugno del 1944, questo giovane studente, presentatogli dal padre Mario, dirigente del Partito d’Azione, decise di dargli un incarico nel partito, assumendolo in novembre come funzionario e nominandolo vice-responsabile nazionale del movimento giovanile. Berlinguer non aveva fatto la Resistenza, non veniva da una città del Nord ma da una realtà agraria e dalla periferica Sardegna. Come Gramsci si era trovato in una situazione di «triplice» o «quadruplice» provinciale nei confronti dei suoi compagni che avevano maturato quella «scelta di vita» in situazioni più vive e stimolanti. Durante il fascismo era stato uno studente come gli altri. Non aveva partecipato ai movimenti di fronda interni al regime o ai Littoriali della cultura e dell’arte. L’antifascismo e la scelta democratica li aveva respirati tra le mura domestiche di una famiglia di tradizioni radicali e mazziniane. L’adesione al comunismo era avvenuta nel silenzio delle letture della biblioteca familiare. La guida dei tumulti del gennaio 1944 e l’assalto ai forni del pane da parte di una folla inferocita, erano esperienze limitate e persino contraddittorie rispetto a chi aveva vissuto la clandestinità, l’esilio, la guerra di Spagna e la Resistenza.
Nato nel 1922, il giovane Enrico maturò le prime esperienze politiche in una famiglia che aveva svolto un ruolo di primo piano nel movimento democratico e repubblicano della Sassari tra Otto e Novecento. Il pittore Mario Delitala ha dipinto un ritratto dell’avvocato Enrico Berlinguer senior, raffigurato con la lobbia a larghe falde e la cravatta nera, e sullo sfondo uno di quei famosi comizi a Porta S. Antonio nel quale il rappresentante dell’Unione Popolare Sassarese arringava in dialetto un uditorio formato soprattutto da braccianti agricoli, operai e artigiani. Il padre Mario, gli zii Stefano Siglienti, Aldo ed Ettore Berlinguer erano figure di spicco dell’antifascismo locale. Il nonno materno Giovanni Loriga, professore di Igiene e fondatore a Roma della Scuola medica del lavoro per aspiranti alla carriera di ufficiale sanitario, si era distinto negli studi sulla malaria e sulle condizioni sanitarie nei posti di lavoro. La biblioteca familiare forniva alla curiosità dello studente liceale le prime letture.
L’adesione alla gioventù comunista, che si collocava in una linea di continuità con la tradizione repubblicana e socialista sassarese, che vedeva gli esponenti della borghesia progressista collaborare insieme ai più sensibili rappresentanti dei lavoratori e degli artigiani, in Enrico si spingeva fino a condividere idee anarchiche e libertarie.
Alla caduta del fascismo le classi dirigenti del Ventennio mantennero anche nell’immediato dopoguerra il controllo della vita politica ed economica di Sassari, in una sostanziale continuità con gli assetti precedenti. Lo stesso movimento antifascista non era riuscito a penetrare nel profondo della società sarda, ma aveva coinvolto soltanto le élites più sensibili della borghesia intellettuale e delle professioni e le frange più coscienti della classe operaia.
Come osservava acutamente Renzo Laconi – tra i più rappresentativi dirigenti del Pci sardo – in un articolo del 1945, i Comitati di Liberazione Nazionale non avevano svolto in Sardegna il ruolo di rinnovamento esercitato, invece, nell’Italia centro-settentrionale, ma anzi si erano caratterizzati per il trasformismo e la conservazione delle rendite di posizione. Alla luce di queste persistenze si spiega perché, nei primi mesi del 1944, si sviluppassero a Ozieri, a Oniferi e a Sassari agitazioni popolari disarticolate e prive di una guida politica, che richiamavano le sommosse spontanee del passato più che gli scioperi e le manifestazioni diretti e organizzati da un’avanguardia politicamente consapevole. Un profondo ruolo di rinnovamento e di discontinuità viene svolto dalle nuove generazioni, dai giovani che si erano formati durante il Ventennio. Scesero in campo con la loro rabbia, con la voglia di mettere in discussione i vecchi assetti di potere, di modificare nel profondo la società. Proprio a Sassari si era formato un circolo di studenti e operai comunisti (una cinquantina d’iscritti), di cui era segretario il giovane Enrico Berlinguer. I moti sassaresi del 13-14 gennaio 1944, se da un lato si collocano ancora nella tradizione del “sovversivismo” popolare, dall’altro vedono la diretta partecipazione del Circolo giovanile comunista in un ruolo di guida e di organizzazione della protesta. Da giorni in città non venivano distribuiti pasta, carbone, olio; il pane scarseggiava. La mattina del 13 l’appuntamento della manifestazione era in Porta Sant’Antonio; il gruppo più numeroso, come si legge in una relazione della Questura seguiva «una grande bandiera rossa con l’emblema della falce e del martello» e si muoveva al canto dell’Internazionale. I forni vengono presi d’assalto e il pane distribuito ad una folla composta da donne, anziani e bambini: «entrammo nel forno dove si panificava per gli inglesi – racconta Nino Pinna, che allora aveva 26 anni e faceva il panettiere –: mi ricordo che facevano un pane bianchissimo, profumato. E dappertutto distribuivamo ciò che trovavamo: la semola, la pasta, lo zucchero, il carbone dei depositi. Il corteo all’inizio era piccolo ma poi diventò enorme, una folla che riempiva le stradine del centro, premeva sui portoni dei mulini, si passava i sacchetti e i cesti alti sulle teste».
Il giorno dopo la folla raddoppiò: si verificarono momenti di tensione con la polizia che voleva arrestare alcuni manifestanti. La sera del 14 le forze dell’ordine fecero irruzione nella sede del Circolo giovanile in via San Sisto sequestrando l’elenco degli iscritti. Il 17 Enrico venne arrestato e rinchiuso nel carcere di San Sebastiano dove sarebbe rimasto tre mesi. Il rapporto, steso dal questore Dino Fabris, già funzionario dell’Ovra, lo indicava come «l’istigatore e il maggior responsabile dei torbidi», addebitandogli anche il proposito di gettar fuori il prefetto dalla finestra del palazzo del governo. L’accusa prevedeva il deferimento al Tribunale militare di guerra. Il padre e i dirigenti dei partiti antifascisti si mobilitarono per la scarcerazione di Berlinguer e degli altri giovani arrestati, che vennero liberati il 23 aprile 1944.
A Sassari intanto era stato nominato un commissario della Federazione: Renzo Laconi, classe 1916, laureato in lettere nell’Università di Firenze. La nomina di Laconi chiudeva di fatto i conti con la vecchia generazione dei comunisti. Con la sua cultura e la sua preparazione ideologica, Laconi esercitò una reale influenza sul giovane Berlinguer, lasciando una vera e propria «impronta indelebile» nella sua formazione. Nel 1967, commemorandone la morte, Berlinguer ricorderà quanto Laconi fosse incancellabile nel ricordo di chi, come lui, aveva avuto occasione di «apprezzare l’altezza del suo ingegno, le sue doti politiche, morali e umane, la passione con cui aveva lavorato per venticinque anni nel nostro partito e nella politica italiana».
A questo punto è bene domandarsi quanto l’educazione culturale in una famiglia antifascista e l’esperienza di segretario del circolo giovanile sassarese abbiano contribuito alla formazione della sua personalità politica. «La galera era stata formativa», dirà Berlinguer in un’intervista a «La Nuova Sardegna» del 1984.
Nel dicembre del 1957, a seguito della V Conferenza regionale del Pci che si tenne a Cagliari alla presenza di Palmiro Togliatti e Giorgio Amendola, Berlinguer venne nominato vicesegretario del partito in Sardegna. La nomina di Laconi a segretario era il segno di un profondo ricambio del gruppo dirigente e di una netta inversione di tendenza nella linea politica del partito. Nel corso degli anni cinquanta erano coesistite all’interno del PCI due letture differenti della questione sarda, delle alleanze sociali, del ruolo della classe operaia e soprattutto dell’autonomia regionale: quella di Laconi e quella di Velio Spano, due varianti della stessa linea, destinate a restare irrisolte sino a quando le profonde modifiche intervenute nella realtà della Sardegna non ne avrebbero proposto emblematicamente la soluzione.
Nelle elezioni regionali del 16 giugno 1957 il Pci subisce una dura sconfitta: passa dal 22,3 per cento del 1953 alla percentuale del 17,5 per cento con una perdita netta di 21.225 voti. Le cause della sconfitta comunista sono molteplici: incidono, indubbiamente, sui risultati elettorali il clima del XX Congresso del Pcus e le rivelazioni sui crimini di Stalin, i fatti d’Ungheria, l’uscita dal partito di un consistente numero di militanti (fra cui Dessanay, Cossu, Giganti, Catte e altri), la demagogica propaganda del Partito monarchico popolare di Achille Lauro che riesce a far breccia in vasti strati sottoproletari e nello stesso elettorato del Pci, ed infine la falcidia dei quadri intermedi comunisti provocata dal grande flusso migratorio. A ciò si aggiunga il carattere nuovo che la Dc inizia ad assumere nella seconda metà degli anni Cinquanta. Un partito che vede il tramonto del vecchio notabilato a favore di giovani quadri che hanno maturato le loro esperienze all’interno degli enti di riforma, dell’amministrazione regionale, della Cassa per il Mezzogiorno. Insomma la Dc si trasforma culturalmente e socialmente, mentre il Pci appare ancora legato ad una concezione organizzativa “vecchia” e a proposte politiche in gran parte superate dai drammatici eventi del 1956.
Sull’esito del voto incidono, tuttavia, in misura determinante anche quei limiti e quelle contraddizioni nell’azione politica del Pci che Amendola critica con forza. L’autonomia e la rinascita, infatti, nel momento del riflusso del movimento diventano oggettivamente delle parole d’ordine propagandistiche, quasi rituali, prive di quel mordente e quell’incisività nel suscitare adesioni, che avevano caratterizzato gli anni precedenti. Il 1957 è, certamente, l’anno in cui si registra il punto più basso nell’elaborazione autonomistica del Pci, e in cui emergono quei ritardi e quelle ambiguità che erano già presenti nella strategia del partito dal secondo dopoguerra. La ripresa sarà lenta e difficile: ma dalla V Conferenza regionale dei quadri, grazie soprattutto all’apporto di Laconi, si inizierà a definire i termini storici della questione sarda e ad impostare una nuova strategia adeguata sai alle trasformazioni della società italiana che alla nuova proposta di una «via italiana al socialismo» indicata dall’VIII Congresso del Pci.
Nella IV conferenza dei quadri, svoltasi ad Oristano il 16-17 febbraio 1957, il “vecchio” gruppo dirigente era stato rinnovato con la sostituzione del segretario Velio Spano – mitica figura di «rivoluzionario di professione» – e dell’intera segreteria regionale con i nuovi e più giovani dirigenti Laconi, Umberto Cardia, Girolamo Sotgiu e Luigi Pirastu. Si trattava di una generazione di intellettuali quarantenni che si sostituiva a coloro che avevano sostenuto le grandi battaglie operaie e contadine del dopoguerra per la difesa dei livelli occupativi del bacino minerario e l’attuazione della riforma fondiaria. Specularmente al ricambio del gruppo dirigente del Pci si assiste, tra il 1956 e il 1957, alla «rivoluzione» che portò un gruppo di giovani (fra cui Francesco Cossiga, Paolo Dettori, Nino Giagu De Martini, Pietro Soddu, destinati ad assumere un ruolo di primo piano nella vita politica nazionale e regionale degli anni successivi) a conquistate la Dc del nord Sardegna, scalzando i vecchi notabili che controllavano il partito.
Anche i nuovi dirigenti comunisti diedero vita, nell’aprile del 1957, ad una rivista, «Rinascita sarda» (diretta da Laconi, Sotgiu e Cardia, con Vincenzo Manca, pittore e filosofo, segretario di redazione), che intendeva non soltanto ridefinire i termini della «questione sarda» alla luce dell’analisi gramsciana, ma anche ricucire la frattura con il mondo culturale sardo dopo i fatti d’Ungheria, trattando problematiche artistiche, storiche e istituzionali. Già nei primi numeri venivano affrontati i temi del nuovo meridionalismo, gli effetti della riforma agraria, le prospettive dell’industrializzazione, l’avvio del Piano di Rinascita della Sardegna su cui si era aperto un ricco e appassionante dibattito tra democristiani, comunisti, socialisti e sardisti.
Il rinnovamento comportò la costituzione di una nuova segreteria regionale diretta da Laconi che, venne affiancato da Berlinguer. Probabilmente fu Togliatti a decidere che Enrico affrontasse un’esperienza in Sardegna (forse avrebbe preferito affidargli l’incarico di segretario, ma la sua proposta s’infranse contro l’orientamento compatto dei sardi che preferivano Laconi), o fu lo stesso Laconi a chiederne la collaborazione. A quell’epoca Berlinguer vantava un cursus honorum di tutto rispetto maturato alla «scuola» di Togliatti e di Longo. L’anno precedente, trentacinquenne, aveva lasciato la segreteria della Federazione giovanile, di cui era segretario dal 1949. Al V congresso del partito (dicembre 1945-gennaio 1946) era stato inoltre eletto membro candidato del Comitato centrale; al VII congresso, nel gennaio 1948, era divenuto membro effettivo del Comitato centrale e membro candidato alla Direzione; in occasione dell’VIII congresso, nel 1956, non essendo più il leader dei giovani non veniva confermato in Direzione, ma veniva chiamato a dirigere la scuola nazionale di partito delle Frattocchie. Reduce da impegni così rilevanti sul piano politico e organizzativo, arricchiti dall’esperienza internazionale maturata da presidente della Federazione mondiale della Gioventù democratica (1950-1953), raggiungeva Laconi ormai “forgiato”; secondo la prassi politica consolidata, si trovava nelle condizioni di chi, giovane dirigente, «a conclusione di una fase di lavoro così generale e di contatti così vasti e fors’anche dispersivi», era opportuno facesse «un “bagno” nella realtà concreta di una regione, misurando anche là il proprio impegno politico e l’efficacia della propria iniziativa».
Nei dieci mesi in cui soggiornò a Cagliari, tra il 1957 e il 1958, Berlinguer s’impegnò assiduamente per la riorganizzazione del partito, dedicandosi soprattutto ad allargare la rete delle federazioni e delle sezioni, così da costituire dei solidi punti di riferimento sul territorio regionale. Accanto a questo intenso lavoro di “struttura” – nelle elezioni politiche del 25 maggio 1958 il Pci riconquistò le posizioni del 1953 – dedicò una parte rilevante delle sue giornate allo studio, a letture che si rivelarono essenziali non solo per la conoscenza della realtà regionale, ma più complessivamente per la sua formazione di dirigente comunista.
Frutto delle letture e delle riflessioni sulle condizioni dell’isola durante il soggiorno cagliaritano Berlinguer mise a punto la stesura di un saggio di forte impatto politico-culturale, nel quale manifestava le sue idee-forza sulla questione sarda e sulla questione meridionale, riprendendo il tema politico che aveva focalizzato l’attenzione della V Conferenza regionale e il dibattito interno al partito. Il saggio intitolato Classe operaia e questione meridionale, pubblicato su «Rinascita sarda» era stato sollecitato da un intervento di Michelangelo Pira – tra i più acuti intellettuali attivi nell’isola – dedicato all’influenza esercitata da Salvemini sull’ideologia sardista, rifletteva sui rapporti tra la sinistra e la tradizione autonomistica, tipica del meridionalismo democratico. Le tesi ruotavano intorno a due concetti: l’esaurirsi delle rivendicazioni meridionalistiche del primo dopoguerra, e in particolare di quelle di Salvemini, dinanzi ai governi centristi della Dc; il ruolo del movimento operaio e quindi del Pci nella guida di un nuovo meridionalismo, di una questione meridionale intesa come questione nazionale di sviluppo e di rinnovamento civile dell’intera società italiana, secondo un’impostazione di chiara matrice gramsciana.
Era questo approccio al problema politico che delineava la distanza tra il partito di Gramsci e le altre formazioni. Concordando con quanti avevano indicato nella mancata prospettiva di collegamenti nazionali l’origine delle «aberrazioni localistiche» del Psd’az, al tempo stesso Berlinguer vedeva nell’assenza di una visione compiutamente nazionale del problema meridionale «la causa dei limiti e del triste concludersi della pur vana e spesso generosa battaglia di Gaetano Salvemini». L’indicazione era chiara: la soluzione dei problemi della rinascita sarda andava legata al progresso generale della democrazia italiana sulla via indicata dalla Costituzione, come era stato ribadito nella risoluzione finale della V Conferenza. Aderendo alla linea sostenuta in quell’assise da Amendola, oltre che da Laconi, Berlinguer ribadiva che occorreva orientare la lotta politica e l’indirizzo del partito affrontando in modo corretto la questione dei rapporti tra azione sardista, azione per l’autonomia della Sardegna, azione meridionalista e lotta generale, nazionale per la democrazia e per il socialismo.
Dopo la svolta del 1957 la linea politica sarda del Pci si misurò con le problematiche relative al varo e all’attuazione del Piano di Rinascita, alla riforma dello Statuto regionale e alle prospettive dell’industrializzazione che prendeva corpo tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta. Per definire i cambiamenti profondi e radicali che investirono l’isola tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta Manlio Brigaglia ha parlato di una vera e propria «catastrofe antropologica». Le grandi trasformazioni economiche e sociali favorirono i territori circostanti ai nuclei di industrializzazione di Porto Torres, Macchiareddu e Sarroch (che incidevano rispettivamente sulle aree urbane di Sassari e di Cagliari), ma lasciarono ai margini le zone interne dell’isola, dove continuava a dominare un’economia agro-pastorale ancora arretrata, in alternativa alla quale vi era solo l’emigrazione. In aree così duramente colpite dalla miseria prendeva nuovo vigore il banditismo, un fenomeno che poneva drammaticamente in evidenza un diffuso malessere sociale, ma che i governi affrontavano unicamente dal punto di vista dell’emergenza criminale, con un’ottica repressiva e non con un piano organico di riforme strutturali e interventi di scolarizzazione. La grave emergenza dell’ordine pubblico nell’isola sensibilizzò l’azione dei partiti democratici e portò all’istituzione, nel 1969, della Commissione parlamentare d’inchiesta sui fenomeni di criminalità in Sardegna, presieduta dal democristiano Giuseppe Medici. Le conclusioni di questa, accogliendo nel contempo le proposte del movimento democratico sardo, prospettavano la necessità di una radicale trasformazione dell’ambiente economico e sociale: attraverso la conversione della pastorizia nomade in stanziale, la diffusione delle cooperative, la costituzione di un monte pascoli (frutto dell’esproprio dei terreni dati in affitto da proprietari non coltivatori), lo sviluppo delle piccole e medie industrie capaci di radicarsi nel territorio, l’efficienza dell’amministrazione regionale.
All’interno della Commissione parlamentare le “convergenze” tra i deputati governativi e quelli dell’opposizione comunista (fra i membri figuravano i senatori Ignazio Pirastu, Girolamo Sotgiu e il deputato Luigi Marras) produssero allegati particolarmente significativi – e conclusioni che prefiguravano una vera e propria linea di sviluppo economico, sociale e civile per le zone interne e per l’intera Sardegna. Queste “convergenze” avevano prodotto nel 1970 la legge sull’eversione della rendita fondiaria, detta, dai nomi dei due firmatari, De Marzi (Dc)-Cipolla (Pci), destinata ad incidere profondamente nel paesaggio agrario sardo, favorendo gli agricoltori e i pastori che lavoravano e sfruttavano le terre a scapito dei proprietari assenteisti.
Alla risoluzione di problemi tanto drammatici, Berlinguer, allora vicesegretario del Pci, aveva dato un rilevante contributo nelle conclusioni dell’VIII Conferenza regionale del partito del 15 febbraio 1970 che anticiparono, in numerosi aspetti, i risultati della Commissione parlamentare: una vibrata denuncia del modello di sviluppo industriale che si era radicato nell’isola dalla fine degli anni Cinquanta con il sostegno della classe dirigente sarda e della stampa locale e che, caratterizzato dalla preminente presenza di stabilimenti petroliferi e petrolchimici, doveva ritenersi il frutto di un sostanziale sottosviluppo.
«La degradazione crescente del Mezzogiorno e delle Isole – asseriva Berlinguer – non si è determinata malgrado che l’industria italiana abbia raggiunto il settimo posto fra i paesi capitalisticamente avanzati, ma non si è determinata proprio perché a quel settimo posto l’Italia c’è arrivata percorrendo una via che non poteva non recare con sé l’ulteriore aggravamento del sottosviluppo che già c’era. Il divario crescente […] fra Nord e Sud, fra consumi privati e consumi pubblici, fra zone e settori capitalisticamente avanzati e zone e settori di degradazione, è la conseguenza necessaria di un processo capitalistico lasciato a sé stesso. Ed è per questo che la soluzione del problema del sottosviluppo […] del Mezzogiorno e, in Sardegna, delle “zone interne”, dipende anche dalla capacità della classe operaia di collegarsi, di allearsi, di portare alla lotta le popolazioni meridionali e tutti gli strati gettati dall’attuale tipo di sviluppo nell’abbandono, nella miseria, nella oppressione».
Poiché la «storica, antica, irrisolta questione meridionale era la questione stessa del sottosviluppo», occorreva individuare delle valide alternative senza “cancellare” le «realtà nuove» – inclusi i grandi complessi industriali – ma partendo proprio da queste. In primo luogo non bisognava incrementare «questo tipo di industrializzazione […] perché ormai tutti sappiamo che [esso…] significa […] condizioni particolari di sfruttamento degli operai […] condannare più della metà della Sardegna alla degradazione. Significa spopolamento, significa miseria».
Si trattava se non di una sconfessione, certo di un ridimensionamento di quella linea filoindustriale portata avanti dalla segreteria Cardia e, in particolare, con maggiore forza da Luigi Pirastu che della scelta a favore dell’industria pertrolchimica era (insieme alla sinistra democristiana sassarese) il più convinto e tenace assertore. Berlinguer, invece, avversava decisamente le iniziative che i grandi gruppi industriali intendevano realizzare con incentivi pubblici, regionali e statali, senza risolvere i problemi della Sardegna, in primo luogo quello della disoccupazione. In antitesi a quanto, in termini di emigrazione e di mancata utilizzazione di energie materiali, umane e intellettuali, aveva comportato lo sviluppo per poli e la crescita dei grandi monopoli sovvenzionati, la nuova linea politica avrebbe puntato prima di tutto sulla “piena occupazione”: «la scelta più umana, la più giusta, la più avanzata: da un punto di vista economico, sociale, culturale e politico». Per realizzare questo obiettivo – sosteneva Berlinguer – bisognava puntare sulla «centralità della scelta agraria non solo come asse di una politica di rinascita e di progresso, ma anche come punto essenziale di una politica di piena occupazione che non si contrappone affatto alla necessità di uno sviluppo industriale, il quale resta l’obiettivo verso cui lavoriamo».
L’attenzione di Berlinguer si focalizzava sulla trasformazione di un milione di ettari, allora occupati dal pascolo brado, che destinati, invece, all’allevamento razionale e ad una agricoltura moderna avrebbero dato lavoro nel settore primario, ma anche nelle industrie, nelle infrastrutture e nei servizi, per i processi di trasformazione e di commercializzazione connessi alla valorizzazione agricola e zootecnica. Bisognava elaborare «una sorta di piano generale», – si spingeva a ipotizzare Berlinguer – che avesse anche in sé «qualcosa di grandioso, qualcosa di avveniristico: un grande piano di trasformazione generale della Sardegna può divenire una delle idee-forza di tutta la nostra battaglia per la rinascita». La trasformazione agraria avrebbe riguardato i rapporti giuridici e sociali, e soprattutto avrebbe puntato a coinvolgere tutti i ceti sociali interessati, in quanto condizione di trasformazione civile: i pastori, i contadini, ma anche gli artigiani, i ceti medi, i giovani, gli intellettuali, i disoccupati, per dare vita non ad una lotta di categorie, ma ad «una lotta politica» di popolo.
Le proposte di Berlinguer per la Sardegna, ma anche per la Sicilia e per tutte le altre aree del sottosviluppo meridionale, non consideravano l’agricoltura come l’unico settore trainante dello sviluppo; puntavano piuttosto ad uscire dai limiti di un’industrializzazione monopolista e assistita per affermare la necessità di recuperare alla produttività vaste zone agricole, inserendole in un moderno progetto di trasformazione in grado di sviluppare le risorse locali, in primo luogo umane.
«Quando parlo della priorità della scelta agraria e […] della priorità che dobbiamo dare alla lotta per una trasformazione delle cosiddette “zone interne”, – spiegava il segretario del partito riferendosi alla situazione sarda – non significa che non dobbiamo avere una specifica politica sui problemi dell’industria».
Il comparto industriale andava difeso con forza, per il peso che esso aveva a livello occupativo – in quegli anni, nel solo polo di Porto Torres si contavano oltre 15.000 addetti –, Berlinguer ne era certo consapevole, ma occorreva imboccare una nuova strada per uscire dal degrado economico e dal malessere sociale: per questo era necessario provocare una nuova “attenzione” verso l’agricoltura. Riproporre – con una nuova impostazione – la questione agraria; dopo i fallimenti della riforma fondiaria e degli interventi regionali, significava destinare ad essa quote importanti delle risorse del Piano di Rinascita, che la Regione sarda si apprestava a rifinanziare, per risolvere la crisi occupazionale e per attuare una serie d’interventi che da troppo tempo attendevano un’adeguata soluzione: il recupero delle terre incolte, l’esproprio della proprietà assenteista, l’abbandono del nomadismo transumante a vantaggio dell’allevamento stanziale e l’attesa revisione dei fitti rustici.
Il segretario del Pci concludeva l’VIII Conferenza regionale ribadendo l’inderogabile priorità di una riforma dell’assetto agro-pastorale e delle zone interne che puntasse sulla valorizzazione delle risorse locali e sullo sviluppo della piccola e media industria, ma precisava che i problemi sociali ed economici della Sardegna potevano essere adeguatamente affrontati solo una volta avviato il rinnovamento dell’istituto autonomistico, e il recupero delle potenzialità dell’autonomia, con il coinvolgimento di una classe dirigente capace di tradurre le aspettative di un popolo non più disposto a procrastinare il proprio riscatto.
La strategia del compromesso storico, esposta da Berlinguer nel 1973 all’indomani del colpo di Stato militare in Cile, pareva trovare in Sardegna un terreno fertile per la sua applicazione.
All’interno della Commissione parlamentare d’inchiesta e nella formulazione della legge 509 (quella del nuovo Piano di Rinascita, varata il 24 giugno 1974) erano emerse infatti forme di convergenza programmatica tra i comunisti e i partiti di centro-sinistra: Berlinguer vi faceva riferimento in un’intervista concessa al quotidiano sassarese «La Nuova Sardegna», sottolineando con orgoglio quanto gli esiti dell’VIII Conferenza regionale fossero stati significativi per l’individuazione di una linea politica intorno alla quale erano maturati significativi accordi tra le diverse forze politiche. Di quella linea si erano fatti tenaci sostenitori i deputati e i senatori comunisti che avevano lavorato nella Commissione parlamentare d’inchiesta, e intorno ad essa si erano coagulati i consensi che avevano reso possibile l’inserimento delle proposte più importanti nella legge 509. Il provvedimento faceva proprie scelte «radicalmente diverse» rispetto al passato: quelle che, come da tempo aveva sostenuto il segretario del Pci, potevano contribuire al rinnovamento della società sarda, nell’ambito di una politica di risanamento dell’economia meridionale e nazionale.
Anche nel rapporto e nelle conclusioni al Comitato centrale in preparazione del XIV Congresso del partito (10-12 dicembre 1974), Berlinguer insisteva sull’urgenza di mutare gli indirizzi dello sviluppo economico nazionale, abbandonando la politica di «mortificazione e dilapidazione di risorse reali e potenziali» che aveva colpito il settore agricolo e determinato «abbandono all’incoltura, soprattutto nell’Italia meridionale e centrale, di zone sterminate, la distruzione massiccia di una parte grande del patrimonio zootecnico, di quello boschivo e di colture anche ricche». Ma così come occorrevano seri piani pluriennali capaci di avviare una radicale trasformazione del settore primario, per il leader del Pci era opportuno assicurare interventi significativi a favore dell’industria, in primo luogo per promuovere e sviluppare le imprese operanti di settori d’avanguardia quali l’elettronica, l’energia nucleare e l’impiantistica. Per uscire dalla crisi, era infatti prioritario affrontare «una riconversione e una qualificazione […] dell’apparato industriale», primo passo secondo Berlinguer verso un’industrializzazione del Mezzogiorno concepita in modo «del tutto diverso da quello seguito in questi ultimi venti anni».
Mentre il panorama politico lasciava intravedere degli spiragli positivi, in economia non si registrava la svolta auspicata. Durante la IX Conferenza regionale tenuta in Sardegna, Berlinguer ricordava che le tesi conclusive della Conferenza precedente erano divenute «essenziali nello scontro e nella vita politica sarda […] un’idea-forza che aveva cominciato ad affermarsi nelle cose e nelle coscienze». Alla soddisfazione per questi lusinghieri risultati, rafforzati dalla crescita di una nuova e combattiva classe operaia, seguiva tuttavia un’amara constatazione che portava il segretario del Pci a denunciare il persistere del processo di degradazione e di abbandono che ancora qualificava la realtà regionale: l’economia non aveva imboccato lo sviluppo auspicato, l’agricoltura segnava il passo e soprattutto la popolazione attiva era ulteriormente diminuita. Come superare il divario e la contraddizione tra un quadro politico che prospettava novità promettenti e un quadro economico e sociale che continuava a presentare segni negativi e drammatici? Alla domanda Berlinguer rispondeva indicando la strada di una «linea unitaria», quella del “compromesso storico”, che poteva trovare attuazione proprio in Sardegna: qui era già «matura, realizzabile e, comunque, non evitabile se non a prezzo di costi, di altri sacrifici, di rinvii», poteva anzi avere una «funzione di punta e di stimolo».
L’obiettivo politico che, a livello regionale, deve ispirare tutte le lotte popolari e di massa – affermava il segretario – è quello di dare una nuova direzione politica alla Regione che si caratterizzi per l’unità di tutte le forze autonomistiche, democratiche e antifasciste, e per la partecipazione anche del nostro partito a dirette responsabilità di governo. Sta in questo obiettivo la garanzia di un reale progresso democratico, di una reale rinascita economica e di concreto rinnovamento sociale».
Da qui l’ipotesi di una giunta di “unità autonomistica” che affondasse le radici nelle specificità storiche del caso Sardegna e s’impegnasse in primo luogo nella risoluzione dei problemi sociali, economici e civili della regione.
I risultati delle elezioni regionali del 1974 premiarono il disegno berlingueriano che apriva delle consistenti crepe nella compagine di maggioranza: la Dc passò dal 44,56 per cento al 38,35, mentre il Pci salì dal 19,7 per cento al 26,8 dei voti, e lo stesso Psi aumentò del 6 per cento; una crescita che venne confermata in occasione delle amministrative del 1975: «l’Italia era cambiata, e erano cambiate anche la Sardegna e il Mezzogiorno – era questo il commento di Berlinguer – il risultato delle elezioni regionali sarde rappresenta una splendida vittoria del nostro partito […]. Chi aveva puntato sul voto della Sardegna per una sorta di rivincita rispetto alla vittoria del no nel referendum […] riceve una dura lezione. Anche dal voto sardo esce dunque confermata l’indicazione politica fondamentale del referendum. […] Il declino della Dc e della sua egemonia è un fenomeno profondo che si manifesta anche in una elezione come questa».
Nella legislatura che seguì la tornata elettorale si realizzarono numerose “convergenze-parallele” tra il governo regionale e l’opposizione comunista: il 10 gennaio 1977 il comunista Andrea Raggio fu eletto presidente del Consiglio regionale e il democristiano moroteo Pietro Soddu, diventato presidente della Giunta, avrebbe così commentato questa fruttuosa stagione politica: «Con i comunisti abbiamo in gran parte comuni giudizi sulla situazione sarda, sul tipo di sviluppo, sui principali problemi ereditati dal passato (banditismo, miniere, pastorizia). Per questo i rapporti si sono trasformati prima che altrove in solidarietà che ha dato vita ad una consociazione di responsabilità anche senza un ingresso diretto del Pci nelle responsabilità di governo».
Si apriva così una nuova fase che sarebbe stata definita di «intesa autonomistica» e che sarebbe durata dall’autunno del 1975 alla crisi del dicembre 1978.
Le prospettive d’ingresso del Pci al governo della Regione furono rafforzate dalla conquista, nelle elezioni amministrative del 1975, di alcuni importanti Comuni da parte della sinistra, primo fra tutti quello di Sassari: «l’anno del trionfo», secondo la definizione coniata da Giuseppe Fiori. Ma i tempi non erano ancora maturi e furono necessari ulteriori “aggiustamenti”, come quelli promossi sui temi dell’autonomia e delle alleanze autonomistiche durante il convegno del marzo 1980, Lotta autonomistica e politica di Rinascita, promosso dal segretario regionale Gavino Angius – fra i dirigenti sardi sicuramente uno dei più vicini alle posizioni di Berlinguer –, una “sistemazione” che doveva fare del partito una forza capace a pieno titolo di partecipare in prima persona al governo della Regione.
La possibilità di attuare il compromesso storico in Sardegna iniziò a concretizzarsi nell’autunno del 1980, quando Pietro Soddu tentò di formare una Giunta di unità autonomistica, con la partecipazione del Pci, della Dc, del Psi, del Psdi, del Pri e del Psd’Az. Il programma di governo, di alto profilo e di contenuti fortemente innovativi si presentava come la summa delle convergenze emerse fra le forze politiche negli anni precedenti sulle prospettive di sviluppo economico, sociale, civile e culturale della Sardegna. A sollecitare la disponibilità del Pci era ancora l’emergenza economica e più in generale la consapevolezza che la crisi in cui versava la Sardegna non poteva essere risolta se non politicamente, e con il coinvolgimento diretto del partito. L’anno precedente, in un intervento a Cagliari, Berlinguer aveva chiarito perché il Pci “doveva governare”, denunciando ancora una volta le gravi manchevolezze della politica regionale, il «mancato avvio della riforma agro-pastorale che avrebbe dovuto [...] costituire l’asse portante della trasformazione economica e culturale delle zone interne della Sardegna e la leva fondamentale per il rinnovamento dell’intera società sarda».
Complesse trattative e obiezioni di strategie nazionali fecero fallire quell’importante progetto. La formazione della Giunta fu sostanzialmente bloccata da due fattori concomitanti: da un lato il veto negativo della segreteria nazionale di Piccoli e della parte più conservatrice del partito (Mario Segni, Raffaele Garzia) sulla Dc sarda, che non poté dar vita a un governo regionale di fatto in contrasto con le scelte nazionali che iniziavano a prefigurare un centro-sinistra decisamente “blindato”; dall’altro il terremoto dell’Irpinia che, mettendo a nudo le inefficienze governative nei soccorsi, portò il PCI all’opposizione con la proposta di “alternativa democratica”.
Per la Sardegna fu un’“occasione storica” persa. Svanì l’ipotesi di mettere insieme tutte le forze del progresso laiche, cattoliche, autonomiste per la realizzazione di un programma assai innovativo, che nella revisione della “specialità” e in una nuova programmazione economica aveva i suoi punti di forza.
In occasione delle elezioni regionali ed europee del 1984 Berlinguer fece la sua ultima campagna elettorale in Sardegna con comizi e manifestazioni alle quali parteciparono migliaia di persone. I risultati elettorali videro una notevole avanzata dei sardisti e una tenuta dei partiti di sinistra e laici che portò alla formazione di una giunta di sinistra e sardista guidata da Mario Melis, destinato a restare in carica sino al 1989. In quest’occasione il segretario del Pci ribadì ancora una volta che i problemi dell’occupazione e dello sviluppo della Sardegna costituivano una questione nazionale: una questione che andava risolta promuovendo uno sviluppo «qualitativamente nuovo», capace di coinvolgere non solo «l’apparato industriale, ma tutta la struttura economica, sociale, culturale, il territorio, l’ambiente, i servizi sociali, il mercato del lavoro» di realizzare «l’integrazione dell’economia sarda in quella nazionale e internazionale». Da Cagliari il segretario del partito indicava la strada per un nuovo programma di sviluppo: che, facendo tesoro delle esperienze maturate negli anni e delle indicazioni provenienti dalla realtà locale, mirava ad allargare le prospettive della Sardegna, inserendo le priorità della sua modernizzazione in un quadro nazionale ed europeo; uno sviluppo in grado di promuovere «l’innovazione tecnologica – precisava il segretario – non solo nell’industria, ma nell’agricoltura, nel terziario, nella pubblica amministrazione e nel sistema scolastico e formativo»; e se alle necessità dell’isola dovevano provvedere lo Stato e la Regione, occorreva tuttavia pensare anche ad un rapporto più stretto tra la Sardegna e la Comunità europea. In questo contesto Berlinguer indicava quali sarebbero stati i programmi che il partito avrebbe sostenuto a livello comunitario, convinto da anni «dell’importanza della dimensione europea: per il comunismo, il socialismo, la democrazia, il lavoro, lo sviluppo». Così come le politiche comuni sopranazionali potevano rappresentare «la migliore tutela degli interessi dei singoli popoli e paesi», la Sardegna poteva rappresentare per l’Europa una regione in cui «sperimentare i nuovi orientamenti» delle sue politiche, riconoscendo all’isola «un ruolo importante specialmente nel suo sviluppo dei rapporti tra l’Europa e i paesi del Mediterraneo». Per attuare un programma di tale respiro occorreva tuttavia assicurare «ampie basi democratiche all’autonomia dell’isola», avviare la riforma della Regione e del suo statuto, costituire insomma una Giunta «alternativa» al «sistema di potere della Dc», sulla base di un’alleanza tra comunisti, socialisti, sardisti e laici. Non si trattava «di una mera proposta di schieramento – ribadiva ancora una volta Berlinguer a quanti gli rimproveravano di prospettare unicamente alleanze come formule di governo –. La Giunta di alternativa autonomistica infatti deve proporsi di favorire il confronto e promuovere la ricerca di più ampie convergenze tra tutte le forze democratiche sulle grandi questioni del rinnovamento della società sarda».
Rispetto all’appassionante cantiere politico dell’autunno dell’Ottanta, che ipotizzava un nuovo blocco sociale e politico in grado di prefigurare una Sardegna diversa, le elezioni regionali sarde potevano contribuire a dar vita ad un autonomo schieramento alternativo – ad un’«alternativa autonomistica» –, capace di contrapporsi alle scelte e agli equilibri della politica romana (sostanzialmente chiusa ad un confronto costruttivo con il Pci), facendo leva sulla permanente attualità dei binomi autonomia-rinascita, questione sarda-questione nazionale.
In quella battaglia il leader comunista trovava nuove ragioni politiche e morali, lasciandosi trascinare dall’entusiasmo che non gli era mai mancato, tanto meno per la sua terra. Riallacciandosi alla temperie della cultura del “rinnovamento” che aveva condiviso in giovinezza con Laconi e all’essenza del pensiero gramsciano che mai lo aveva abbandonato, riaffermava con forza l’esigenza di «una nuova autonomia della Sardegna». Nelle sue parole, nella sua dedizione, nella sua tenace battaglia politica restava ferma l’idea di una rinnovata unità autonomistica, di un movimento di pensiero e di lotta capace di convogliare «tutte» le energie morali, intellettuali, sociali ed economiche della regione verso un nuovo sviluppo della Sardegna, in un contesto, però, non più solo nazionale, ma aperto – con grande lungimiranza – alle prospettive offerte dall’intreccio delle relazioni europee e mediterranee.
Nonostante le grandi aperture europeiste, nei primi anni ottanta restavano ancora irrisolti tutte le antinomie e tutti i nodi della strategia del Pci all’indomani dell’abbandono del “compromesso storico” e della prospettiva consociativistica con una Dc orientata a sinistra. Ha dunque ragione Silvio Pons ad affermare che «l’eredità di Berlinguer fu un’identità debole, la premessa di un post-comunismo che anteponeva la propria visione etica e universalistica alle reali sfide della politica».
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Antonello Mattone, Sassari,1947, laureato in Giurisprudenza a Sassari, allievo di Luigi Berlinguer, dal 1974 assistente ordinario di Storia delle istituzioni politiche presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Sassari, corso di laurea in Scienze politiche. Nel 1982 ha vinto il concorso di associato e nel 1991 quello di straordinario per la cattedra di Storia delle istituzioni politiche– confermato ordinario nel 1994 – presso la nuova Facoltà di Scienze politiche. È stato direttore del Centro per lo studio della storia dell’Università di Sassari, vice preside della Facoltà di Scienze Politiche dal 2005 al 2008, e dal novembre 2001 al novembre 2010 direttore del Dipartimento di Storia dell’Università di Sassari. Dal 1993 al 1998 ha diretto le Settimane della cultura scientifica dell’Università di Sassari. È stato membro del Comitato permanente per i congressi di storia della Corona d’Aragona dal 1997 al 2010 e fa parte del comitato scientifico delle riviste «Annali di storia delle università italiane» e «Quaderni di storia dell’Università di Padova», di quello per la pubblicazione degli atti dei Parlamenti sardi («Acta Curiarum Regni Sardiniae») del Consiglio regionale della Sardegna, di quello della collana «Bibliotheca sarda» delle edizioni Ilisso di Nuoro, di quello della Fondazione “A. Segni” di Sassari. Membro del comitato di direzione della «Rivista storica italiana». Ha diretto insieme a Ennio Cortese, Italo Birocchi e Marco Miletti il Dizionario storico dei giuristi italiani per l’editore il Mulino di Bologna, apparso nel 2013. Ha pubblicato la Storia della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Sassari. Dal 1992 al 2010 è stato delegato rettorale alle attività culturali e sociali. Dal 2010 al 2017 ha avuto la delega al Museo scientifico e alla memoria storia dell’Università di Sassari. Numerose sono le pubblicazioni di Antonello Mattone.
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Il brano di Antonello Mattone è stato pubblicato nel libro a cura di Giovanni Gelsomino “Enrico Berlinguer. L’ultimo leader “ per i tipi di Delfino Editore, Sassari, 2014