Enrico Berlinguer sono io da bambina, figlia di operaio, nata comunista

di Michela Calledda

Sono nata a Iglesias il 5 febbraio 1979, figlia di militanti comunisti.

     Mio babbo aveva 21 anni, aveva una folta chioma di capelli ricci e scuri e una barba fitta e altrettanto scura. Faceva l’operaio edile ed era iscritto al PCI da sette anni, e alla CGIL, sindacalista in FILLEA. Mia mamma aveva vent'anni, portava i capelli cortissimi, come li porto io adesso, aveva enormi occhi neri, era disoccupata. A casa mia si è sempre parlato quasi solo di politica. Forse è per questo che sono stata, da subito, una strana bambina: recitavo le poesie in piedi sulla scrivania di mio babbo, in FILLEA; cantavo Bandiera Rossa, Bella Ciao, Per i morti di Reggio Emilia. Andavo in sezione e poi in federazione, sulle spalle di mio babbo non perdevo una manifestazione, frequentavo feste e festival dell’Unità.

     Ancora oggi, mia nonna dice spesso, con tono rassegnato: «Tui ses stettia sempri Comunista. De pitticchedda», e mi racconta che Don Dionigi, il prete della sua parrocchia, si divertiva a provocarmi: avevo tre anni e già mi chiamava “La Comunista”. “Ma tu lo sai” mi diceva “che i comunisti sono furbi?” e io, pronta, rispondevo che i comunisti non erano furbi: quelli furbi erano i preti, i comunisti erano belli.

     Il marchio della comunista mi è sempre rimasto allegramente e orgogliosamente cucito addosso. Così mi definivo e mi definivano le persone che frequentavo da adolescente. Così mi definiscono ancora, ogni tanto, ed è una cosa che mi piace quando la sento, ne sono fiera.

     In quanto “figlia di” ho sempre rifuggito l’impegno diretto: mi sembrava fuori luogo, sbagliato, viziato. Mi accontentavo di essere una figlia del partito e per questo più strutturata di molti altri sulle questioni strettamente politiche. Comunque ci ho provato e ci provo - ancora e per quello che posso - a essere militante, con tutti i limiti del momento: sbandata, orfana, senza una linea. Come scriveva Viola Ardone ne Il treno dei bambini: “Era più facile, una volta. C’era il Partito, c’erano le compagne e i compagni di partito. Oggi non ci sta più niente, chi vuole fare qualcosa di buono lo deve fare da solo per conto proprio. C’era la Sezione (…)” e, aggiungo io, c’era Enrico Berlinguer. A Enrico Berlinguer ho voluto bene da sempre anche se io Enrico Berlinguer non me lo ricordo. Eppure se ci penso mi sembra di conoscerlo, mi sembra di sentire quella nostalgia allegra che da piccoli si prova per uno zio lontano, quasi sconosciuto, del quale mamma e babbo, i loro amici e tutti i parenti parlano con riverenza e rispetto, con un alone di leggenda, forse. Quello col quale si sogna di scherzare, quello che vorremmo abbracciare salvo restare intimiditi e senza parole nel momento dell’incontro.

     Avevo cinque anni nel 1984, quando è morto Berlinguer. Ho ricordi sfumati di quei giorni: una passeggiata sulle spalle di mio babbo, la sua Renault 5 nera, parcheggiata davanti a casa, l'odore di carta e inchiostro dei giornali, dei volantini. Un pianto discreto, commosso. L'assenza di Berlinguer, da quel momento, nella mia educazione politica e sentimentale è diventata incolmabile: come un buco che sai che c’è, che riconosci, ma che non riesci a riempire mai.

     Enrico Berlinguer sono io bambina, figlia di un operaio, io che imparo che una società deve rispettare “tutte le libertà meno una: quella di sfruttare il lavoro di altri esseri umani perché questa libertà tutte le altre distrugge e rende vane.” Sono io che imparo che nessuno deve essere sfruttato. È il germe dell’uguaglianza che mi cresce nel petto per non abbandonarmi mai. È l’immensa nostalgia per ciò che è stato e non sarà più.  È mio babbo che malgrado e nonostante tutte le cose capitate in questi lunghissimi anni rimane per me quel ragazzino del sindacato che crescerà dentro il partito dei lavoratori più grande e importante d’Europa. A me piace ricordarlo proprio così, Berlinguer: non semplicemente un uomo, ma un comunista, uno dei più grandi.

     Il più grande segretario del Partito dei Lavoratori, ché questo eravamo e questo abbiamo perso. Solo così lo posso ricordare ed è un modo molto sentimentale, ne sono consapevole. Ma è il suo mite sorriso che ci manca, le parole precise, acuminate e vicine. Vere, perché parlavano di noi. Tutti. Perché è l’empatia, la connessione sentimentale col popolo che con lui è volata via. E forse anche il coraggio dell’ideologia. Del resto, come disse lui stesso, “sul sole dell’avvenire oggi discutono più gli scienziati che i comunisti”.

     Giovani e vecchi, malridotti, poveri e confusi, ma mai domi, siamo ancora qui e no, Enrico, non ti dimenticheremo. Avanti Popolo, alla riscossa.

-----

Michela Calledda, libraia e operatrice culturale, si occupa di promozione della lettura e cura progetti culturali per 'Archivio Distratto', associazione culturale di cui è anche responsabile organizzativa. Collabora a diverse iniziative culturali tra cui il festival letterario Sulla Terra Leggeri. A Siliqua, piccolo paese del Sulcis a metà strada tra Iglesias e Cagliari, ha ideato e aperto nel 2021 una meravigliosa libreria La Giraffa, libri e altre meraviglie.

Estratto da un Manifesto di © Angelo Liberati, Cagliari.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *