Quei ragionamenti attenti, complessi e innovativi che arrivavano direttamente agli italiani

di Pietro Maurandi

Berlinguer non l’ho conosciuto personalmente, ma l’ho sempre ascoltato con interesse, come milioni di italiani. Lo ricordo:

-         Da un balcone del palazzo comunale di Cagliari, nel 2007, quando, insieme con Salvatore Ferrara (primo Sindaco socialista di Cagliari), commemorò Antonio Gramsci in occasione del settantesimo anniversario della sua morte, davanti ad una folla strabocchevole, che occupava buona parte della via Roma e del largo Carlo Felice;

-         In un comizio in piazza Costituzione, insieme – se non ricordo male – con Emilio Lussu;

-         Al teatro Massimo di Cagliari, in una sala affollata di militanti e di ascoltatori, tutti attirati dalla sua presenza e dal suo non comune modo di parlare.

   Lo ricordo per le cose che diceva, soprattutto per come le diceva, senza nessuna concessione alla retorica tipica di quasi tutti gli uomini politici. Al contrario: il suo modo di argomentare, se non fosse stato lui a usarlo, sarebbe apparso freddo e meticoloso fino alla noia, nello spiegare, nel distinguere, nello sviscerare questioni complesse.

   Gli esponenti degli altri partiti parlavano e si capivano fra loro. Le persone che li ascoltavano e li seguivano erano appunto ascoltatori, che ricevevano messaggi poi decifrati e spiegati da leader locali o da interventi successivi.  Berlinguer no, lui parlava direttamente ai cittadini e tutti lo capivano e ne accoglievano i discorsi come se fosse uno di loro. Costruiva periodi sintattici complessi, c’era da chiedersi da cosa derivasse il suo fascino di non oratore, se da quello che diceva o da come lo diceva. Costruiva ragionamenti attenti, meticolosi, che seguiva con passaggi logici impeccabili.

   Ricordo un periodo in cui, nel primo giornale radio, alle sette del mattino, quasi sempre si riportavano, fra le prime notizie, le ultime cose dette da Berlinguer. Non per piaggeria di giornalisti, ma perché il capo dei comunisti non parlava come i suoi predecessori, anche quelli dotati di grande fascino e carisma. Diceva cose nuove, e usava toni nuovi, perché nuovo era il suo modo di pensare e di fare la politica. In particolare, ricordo quando disse che stava bene sotto l’ombrello della NATO. Noi studenti di Sinistra fummo scandalizzati da quella affermazione, ma nel giro di qualche giorno di discussioni e di riflessioni fra noi, apprezzammo almeno un lato della questione: il non voler stare nel patto di Varsavia, egemonizzato dall’URSS, in questo continuando e allargando il senso della via italiana al socialismo, a suo tempo teorizzata da Togliatti.

   Poi, nel 1973, venne il “compromesso storico”. Venne illustrato in tre articoli pubblicati su Rinascita, a commento del golpe cileno, quando le forze reazionarie guidate dalla DC cilena, avevano abbattuto – con il sostegno americano – il legittimo Governo di Salvador Allende e ad instaurare una feroce dittatura. Anche quegli articoli ci scandalizzarono, perché il termine “compromesso” aveva per noi un senso deteriore, di cedimento, di venir meno a principi e valori consolidati. Ma Berlinguer non era facile da comprendere e da seguire al primo impatto. Ci voleva sempre qualche riflessione più meditata per capire la portata effettiva e il senso profondo delle sue innovazioni.

   Capimmo allora che non si trattava affatto della banale offerta di alleanza di governo alla DC, come spesso è stata e viene ancora interpretata. In realtà aveva l’obiettivo di stabilire che un eventuale ingresso al Governo da parte del PCI, per via democratica, doveva essere considerata una circostanza possibile e normale in un paese democratico come l’Italia repubblicana. Si prendevano le mosse da ciò che era accaduto in Cile per affermare la piena legittimità dell’aspirazione del PCI al Governo del Paese.

   Venne poi il rapimento e l’assassinio di Moro, colui che aveva aperto un dialogo con Berlinguer sulla possibilità che il PCI potesse governare il paese in seguito ad una piena legittimazione elettorale. Su questo, Moro si attirò le ire di ambienti influenti americani e sovietici, che non vedevano di buon occhio la sua politica e quella di Berlinguer, ed è possibile che Moro sia stato assassinato, per mano delle Brigate Rosse, proprio in ragione delle sue posizioni. Durante il rapimento di Moro, Berlinguer fu tra quelli che rifiutarono di venire a patti con le Brigate Rosse, perché cedere avrebbe significato compromettere il fondamento stesso delle istituzioni dell’Italia repubblicana. Non fu il solo a sostenere questa posizione, che poi è stata criticata in particolare dai socialisti craxiani. Ricordo un accorato discorso di Ugo La Malfa in Parlamento, che disse più o meno che coloro che avevano scelto la vita politica come missione e non come mestiere, dovevano mettere nel conto che poteva essere a rischio la loro esistenza e la loro stessa vita.

   Poi venne la morte di Berlinguer, preceduta dal suo accasciarsi sul podio di un comizio a Padova, col suo tentativo di concludere il discorso nonostante il dolore alla testa che gli impediva di continuare a parlare. Sopraggiunse una lunga agonia, che commosse l’Italia intera, anche coloro che lo avevano legittimamente avversato e combattuto con le armi della democrazia. A rendere omaggio alla salma nella sede del PCI di via delle Botteghe Oscure, giunse anche Almirante, leader del partito neofascista. Uscito dalla Camera, aveva percorso il tragitto a piedi fra due ali di militanti comunisti, che accorsero l’avversario in rispettoso silenzio. L’ultima immagine è quella di Sandro Pertini ai funerali di Berlinguer, con il partigiano Presidente della Repubblica che tiene la mano sulla bara, come di un figlio, per dargli, a nome di tutti gli italiani, l’ultimo affettuoso saluto.

   Che cosa rimane ora di Berlinguer, a 100 anni dalla sua nascita e a 38 anni dalla sua morte? Il rigore morale, che non fu moralismo ma l’espressione di un’idea alta della politica, un attaccamento profondo ai valori dell’Italia democratica, un impegno assoluto per il riscatto della parte più debole, più indifesa e più esposta della società: i lavoratori, i giovani, le donne. Insomma, un impegno e una dedizione totale al compito che aveva scelto fin da ragazzo, quando a Sassari aveva organizzato le lotte contro il rincaro del pane. Berlinguer fu il leader dei comunisti italiani, e quindi fu uomo di parte, ma capace di un impegno e di una dedizione totale, un esempio, con pochi eguali, del valore alto della politica, quando venga vissuta come scelta e impegno di vita a favore dei cittadini, in particolare dei più deboli e indifesi.  L’assassinio di Moro provocò il naufragio del progetto politico che accomunava lui e Berlinguer. Infatti, subito dopo il delitto, la DC rioccupò una posizione fortemente sbilanciata sulla destra e Berlinguer reagì, nel novembre del 1980, con un famoso discorso di Salerno. Dopo aver visitato i luoghi del recente terremoto, criticò la svolta democristiana e indicò la nuova strada dell’alternativa democratica, che ricollocava la strategia del PCI nell’ambito della Sinistra, non senza aver riproposto il tema a lui caro della questione morale, parlando di “risanamento morale” e di “rinnovamento dello Stato”.

   Noi giovani di Sinistra eravamo soddisfatti per la svolta di Salerno (la seconda dopo quella di Togliatti nel 1944), ma non ci volle molto a capire che era finita una stagione, quella di Moro e di Berlinguer, che avrebbe potuto aprire nuove prospettive di riforma e di progresso per la società italiana. Poi venne tangentopoli (o “mani pulite”), quando le indagini della procura di Milano svelarono corruzione e collusione fra politica e affari ad opera di partiti di Governo, in particolare del PSI di Craxi, che da quella vicenda uscì infangato e distrutto. Era la “questione morale”, quella che Berlinguer aveva visto e denunciato con la sua grande capacità di analisi profonde. Ora si presentava davanti ai nostri occhi, e chiudeva, tristemente e tragicamente, una fase della vita e della politica della Repubblica.

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Pietro Maurandi, professore di Storia del Pensiero Economico nelle Università di Cagliari e di Sassari. Consigliere di amministrazione di: Banco di Sardegna, Banca CIS, SFIRS. Deputato al Parlamento nelle file dell’Ulivo dal 2001 al 2006. Presidente dell’Associazione Antonio Gramsci dal 2019 al 2022. Ha scritto su economisti e scuole di Pensiero Economico. Ha curato la pubblicazione delle Memorie della Reale Società Agraria ed Economica di Cagliari. Autore di quattro romanzi storici (Hombres y Dinero, CUEC; Isole, Arkadia, Falsi e bugiardi, Arkadia; Giovanna la regina ribelle, Arkadia ). Ha curato la pubblicazione di scritti su Renzo Laconi (Laconi cultura e politica, Arkadia).

Cagliari, (Archivio Podda), 15 gennaio 1984

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