La trepidazione per la vita di Enrico nel ricordo di un sindaco che ama la poesia

di Ennio Meloni

Fin da quell’otto giugno apparve chiaro che il malore che il giorno prima aveva colto Enrico Berlinguer era gravissimo e che lo stava portando a lottare tra la vita e la morte.

Sentii e scoprii che altri compagni avevano sentito lo stesso impulso, il bisogno di raggiungere la sezione del partito, in corso Matteotti, la strada principale di Gonnesa. La sezione era ubicata nell’intero piano terra dell’edificio che, nel 1906, ospitava uno spaccio oggetto di una delle tappe dei moti del pane. Le pallottole dei moschetti della repressione uccisero due uomini e una donna che, si racconta, innalzava sulle teste di quella folla affamata e disperata un bastone con un drappo rosso.

Ricordo che, intanto che si parlava, ognuno aggiungeva un particolare o una sua emozione, presi un intero pannello di faesite, tre metri per uno e cinquanta, e lo foderai di con il dorso bianco di manifesti elettorali.

Guardai a lungo il grande spazio bianco pensando a che cosa scrivere per comunicare ai compagni e al paese le notizie, la preoccupazione e i nostri sentimenti.

Sentivo la responsabilità di farlo, ero stato sindaco fino a qualche mese prima e alle elezioni il paese mi aveva dato circa ottocento preferenze e ci aveva premiato con nove consiglieri su venti, anche se il PSI egemonizzato da Craxi aveva concluso, nottetempo, un accordo con DC e PSd’Az che gli aveva permesso di raccogliere gli altri undici consiglieri e di eleggere il sindaco.

Rimasi a lungo a pensare, cercando di mettere ordine nei pensieri.

Presi un grosso pennarello rosso e, a caratteri alti un metro e in grassetto scrissi solo:

“ENRICO, resisti!”

Prendemmo il pannello e lo portammo fuori dalla sezione, poggiato sul marciapiede, nel Corso Matteotti.

Vi restò fino alla fine.

Fu una specie di preghiera, di appello collettivo ad Enrico e a chi poteva decidere della sua vita. Enrico, resisti, resisti, noi abbiamo ancora bisogno di te, della tua intelligenza, della tua nitida onestà, della tua guida.

Chi passava guardava e chinava la testa o entrava a chiedere notizie, a fare un gesto di amicizia, di condivisione delle preoccupazioni. Alle politiche il partito aveva raggiunto il 58% e Enrico era amato da gran parte della popolazione, in gran parte famiglie di minatori o di lavoratori nel vicino polo di Portovesme.

Stavo in sezione per ore, nei pomeriggi dopo il lavoro, a ricordare, a descrivere le emozioni per l’esserci spesso sfiorati ma mai incontrati, come in una, da parte mia, smisurata passione non consumata.

Ricordai i fatti polacchi della fine del 1981 e la mia crisi durata, per merito di Berlinguer, solo poche ore. Il colpo di stato del generale Jaruzelski, mise in crisi la mia appartenenza e la mia militanza, non capivo e durante una assemblea di fabbrica della Eurallumina, dove lavoravo, dichiarai pubblicamente che facevo molta fatica a riconoscermi in un partito che avesse avallato quei fatti. Ero sindaco di Gonnesa e, naturalmente, molti compagni ascoltarono il mio intervento con attenzione e anche con qualche preoccupazione.

La sera del 15 dicembre Enrico Berlinguer pronuncio quelle parole (“è venuta esaurendosi la spinta propulsiva …”) che mi riconciliavano con il mio partito.

Poi andai in molte assemblee di sezione, ne ricordo ancora una particolarmente sofferta, a Portoscuso, per spiegare il significato profondo di quelle parole a compagni che, a volte, facevano fatica a comprenderne il peso storico.

Insieme ai compagni ricordammo, e il ripensarci ci riempiva di orgoglio, al suo viaggio in Sardegna del recente gennaio e alla sua significativa partecipazione alla assemblea della Carbosulcis, a Seruci, nei cantieri da poco avviati in terreni del Comune.

Gli fu donata, dal Sindaco (dolorosamente non ero più io) e dal segretario di sezione, una pergamena con la copia del verbale di costituzione, in Consiglio Comunale di Gonnesa, del gruppo consiliare del Partito Comunista nella primavera del 1921, capeggiato dal segretario della sezione appena costituitasi Andrea Lentini.

Enrico ci ringraziò e guardando la pergamena e chiese: “Leggo che il capogruppo si chiamava Andrea Lentini, come è possibile, si tratta di una omonimia? Io ho conosciuto un Andrea Lentini, a Sassari, è stato uno dei miei riferimenti giovanili”

Si commosse quando gli dicemmo che era lo stesso Andrea Lentini, fondatore del partito a Gonnesa e fuggito a Sassari, ospite di suoi parenti, per evitare di essere incarcerato, o peggio, dai fascisti che, infatti, nel dicembre 1922, partiti da Iglesias ed ingrossatesi a Gonnesa avevano raggiunto il porto di Portoscuso e, là, uccisero a pistolettate i fratelli Fois, capi della lega dei pescatori.

Gli raccontammo che un cognato di Andrea Lentini aveva piegato e nascosto in un doppiofondo di un muro del forno domestico la bandiera della sezione. Ricomparsa poi dopo la caduta del fascismo.

Gli parlammo del drappo rosso che, durante il fascismo, sventolava in cima ad un colle sopra Gonnesa per ogni Primo Maggio e che, quando i fascisti andavano a impossessarsi di quello che appariva un possibile trofeo, immancabilmente si ritrovavano in mano un sacco di juta trapuntato di rossi papaveri e tornavano in paese scornati.

Ricordavamo, poi, con i compagni che, sempre più preoccupati per la sua salute, in sezione ci facevamo coraggio a vicenda, un comizio a Gonnesa, in Piazza Asquer del fratello Giovanni, candidato al seggio senatoriale per le elezioni del 1983. La sera tardi, finito il comizio che contribuì alla sua elezione, lo accompagnai a Cagliari con un nipote dei Fratelli Fois di Portoscuso. Naturalmente si parlò anche di Enrico che Giovanni ci descrisse molto più allegro di quanto apparisse in pubblico, dirigendoci verso il Cimitero Monumentale per accompagnarlo a casa della zia Siglienti dove avrebbe dormito, passammo sotto le finestre dell’Hotel Mediterraneo e Giovanni ci disse che vi alloggiava Enrico con la scorta “lasciamolo tranquillo, ora dorme, penso” ci disse.

Ai compagni parlai di quanto mi aveva raccontato un collega di lavoro che abitava, prima di essere trasferito a Portovesme, a Frascati e talvolta vedeva la millecento scassata di Berlinguer che a volte, faceva una gita domenicale con la sua famiglia. Ancora oggi penso alla severa frugalità di quel gigante politico, racchiuso in un corpo quasi gracile che Benigni sollevò in braccio, leggero come un ragazzo, e che io ho amato come un padre. Come mio padre comunista che se ne era andato sei anni prima di lui. E che, come mio padre, è rimasto come solida roccia sotto i miei piedi che camminavano e camminano in un mondo sempre più vacuo.

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Ennio Meloni, nato a San Vito, cresciuto nel Sulcis, abita a Gonnesa. Lavora a Milano dal ‘67 al ‘71, partecipa alle lotte del ‘68, sindaco di Gonnesa dal ‘79 al 1983. Componente della segreteria federale di Carbonia e di vari organismi ragionali del PCI. Segretario cittadino di Cagliari negli anni a cavallo del 2000. Programmatore elettronico alla Siemens di Milano, poi in Unilever e in Eurallumina, ha coordinato la catalogazione dei beni culturali della Gallura, è stato direttore commerciale all'aeroporto di Cagliari. Ama la poesia e ne scrive. Ne ha pubblicato una raccolta con LietoColle editore, presente in varie antologie, ha pubblicato anche qualche racconto.

Manifestazione con Enrico Berlinguer il 15 gennaio 1984 a Cagliari ©Franco Sotgiu, Cagliari, 1984

Un pensiero riguardo “La trepidazione per la vita di Enrico nel ricordo di un sindaco che ama la poesia

  1. Salvo odette ha detto:

    Io sono la nipote di Andrea Lentini (mia madre Teresa,nata a Gonnesa,era la figlia) ed e' vero quello che racconta Ennio Meloni(peraltro amico di alcuni miei parenti di Gonnesa) perche' anche mia mamma,quando era in vita,mi ha sempre raccontato che Enrico Berlinguer,da giovane,aveva fatto riferimento politicamente anche su mio nonno ed a Sassari(dove mio nonno si era trasferito con la famiglia)ebbe da mio nonno la sua prima "bandiera rossa"

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