L'eredità di Berlinguer: Le radici etiche dell'azione politica
CAGLIARI. Oggi alle 17,30 a Palazzo Regio si terrà un convegno dal titolo «Il pensiero politico di Enrico Berlinguer». Dopo i saluti di Emilio Floris, sindaco di Cagliari, spazio agli interventi di Graziano Milia, Mario Birardi e Gavino Angius. Chiuderà Beppe Pisanu, capo della segreteria Dc ai tempi di Zaccagnini, oggi presidente della Commissione antimafia. Qui pubblichiamo una parte della commemorazione di Berlinguer fatta da Pisanu, insieme con Gianfranco Fini e con Alfredo Reichlin, il 10 giugno 2009 nella sala della Regina, presso la Camera dei deputati, alla presenza del Presidente Giorgio Napolitano. di Giuseppe Pisanu Ecioè negli anni in cui venne tracciata quella singolare linea di confine e di confluenza che fu per la Dc la «solidarietà nazionale» e per il Pci il «compromesso storico». [...]
L’Italia del 1975 era un Paese allo stremo: l’inflazione vicina al venti per cento, gli investimenti in caduta libera e il prodotto interno lordo intorno a meno quattro per cento, mentre stragi e terrorismo insanguinavano le strade e scuotevano le istituzioni. La Democrazia cristiana, già isolata dal referendum sul divorzio, aveva poi subito altri rovesci elettorali. Il Pci, al contrario, sembrava ormai destinato a sorpassare il suo storico antagonista e a conquistare la maggioranza relativa. Evidentemente la linea del «compromesso storico» si stava facendo strada nei ceti medi e nel mondo cattolico. Berlinguer la portava avanti bilanciando sapientemente i richiami all’identità comunista con l’esigenza del rinnovamento e della radicale revisione dei rapporti tra il Pci e il comunismo internazionale. Era una operazione che richiedeva molto coraggio e molta prudenza, perché sfidava, allo stesso tempo, forti resistenze interne, l’aperta ostilità di Mosca, l’inimicizia dichiarata delle Br e dell’intero arcipelago estremista. In quei giorni, una valutazione interessata della situazione generale avrebbe facilmente suggerito al Pci di stare alla larga dalla Dc e dal governo; di cavalcare semmai il malessere e la paura [...]. Ma, come altre volte nella storia del Pci, prevalse quello che da Gramsci e da Togliatti venne chiamato il senso della «responsabilità nazionale».
Si pensò prima allo Stato e poi al partito. Invece di chiudersi nell’orgoglio dell’opposizione in ascesa o muovere alla conquista di una risicata maggioranza di sinistra, Berlinguer preferì un compito più difficile e ambizioso: costruire un largo schieramento popolare, che facesse uscire l’Italia dalla crisi, dandole un sistema politico più avanzato e una società arricchita, diceva lui, «da alcuni elementi propri del socialismo». [...] Qualcun altro spianava lo stesso sentiero. Da posizioni diverse, Aldo Moro aveva innescato nella Dc un analogo processo, assumendo due essenziali obiettivi: il primo, mobilitare tutte le energie disponibili per superare l’emergenza; il secondo, schiodare il sistema politico dalla fissità dei ruoli (Dc sempre al governo, Pci sempre all’opposizione) a cui lo aveva condannato la guerra fredda e creare così la condizioni per una democrazia matura dell’alternanza. Occorreva dunque una nuova maggioranza di «solidarietà nazionale», con carattere però assolutamente transitorio. Superata infatti l’emergenza, Dc e Pci, finalmente riconciliati dalla comune esperienza di governo, sarebbero tornati davanti agli elettori come partiti tra loro naturalmente alternativi, ma in grado, per l’appunto, di alternarsi tranquillamente alla guida del Paese, senza più alcun rischio per la democrazia. Anche Moro incontrò tenaci resistenze: nella Dc e nel mondo cattolico, nelle capitali dell’Alleanza atlantica e, da ultimo, in quella destra profonda e sfuggente, non parlamentare, che si era vista più volte risalire minacciosamente dalle viscere della società e dello Stato. Era qualcosa di analogo a quello che Antonio Gramsci aveva chiamato il «sovversivismo delle classi dirigenti», che in passato avevano fatto ricorso agli stati d’assedio e al fascismo per non perdere il monopolio del potere. [...] Oggi possiamo dire, insieme ai critici più severi, che il compromesso storico è fallito. Ma non possiamo dire che si è trattato della sconfitta politica di Enrico Berlinguer e del suo partito. Perché al fondo di quel fallimento c’è qualcosa che in nessun modo è dipeso da lui, e cioè il disfacimento del comunismo. Al contrario, Berlinguer aveva cercato ostinatamente di dare una risposta positiva alla vecchia domanda che Togliatti si era posto nel 1956, nella celebre intervista a «Nuovi Argomenti», sulla possibilità di riformare il comunismo. Ma, dopo la morte di Berlinguer, c’è stata una replica impietosa della storia, la quale ci ha detto che non può esserci un «riformismo comunista». E infatti il muro è crollato da Berlino a Mosca, passando per tutti i Paesi dell’Est europeo. Oggi, mi sembra profondamente ingiusto che questo drammatico destino debba tramutarsi in una colpa personale e rovesciarsi proprio sull’uomo che aveva fatto di tutto per scongiurarlo, indicando al suo partito una strada nuova e una collocazione diversa tra i cosiddetti «partiti fratelli». In Italia Berlinguer si è battuto per rinnovare contemporaneamente il Pci e l’intero sistema politico. Insieme al suo gruppo dirigente ha sostenuto a Mosca le ragioni del mutamento democratico del Pci, compiendo atti concreti che hanno dato al comunismo italiano una immagine inedita di rango internazionale, di serietà e di solidità. Se è vero, come diceva Don Luigi Sturzo, che la politica estera è la politica, Enrico Berlinguer fu, anche in questa ottica, un grande uomo politico. Per lui la politica fu davvero professione e missione, servizio quotidiano ai propri ideali e al bene comune, anche a costo di lasciarci la vita. Io lo ricordo con ammirazione e gratitudine.
Da La Nuova Sardegna — 05 marzo 2010 pagina 36