Enrico Berlinguer
di Giorgio Macciotta*.
Giorgio Napolitano, che era il più accreditato concorrente di Berlinguer quando si pose il tema della successione di Luigi Longo alla guida del PCI, così descrive quel momento nella sua autobiografia: “obiettivamente era Berlinguer ad avere più titoli ... (non solo) per la ben maggiore esperienza internazionale ... da quando era stato Presidente della Federazione Mondiale della Gioventù Democratica, ... (ma anche) per la sua integrazione da lungo tempo nel gruppo dirigente togliattiano del PCI, di cui avrebbe potuto impersonare la continuità. La scelta di Berlinguer come vice segretario divenne evidente prima di essere formalizzata dal Comitato centrale”.
A ben guardare in questa ricostruzione si sintetizzano le due qualità fondamentali che hanno cartterizzato contenuti e stile di direzione di Enrico Berlinguer.
In primo luogo era a lui ben chiaro che la politica nazionale non poteva muoversi al di fuori di un’attenta valutazione del sempre più mutevole, e complesso, quadro internazionale.
Gli anni ‘60/’70 dello scorso secolo sono quelli del pieno dispiegarsi della decolonizzazione e di un primo mutamento dei rapporti tra le diverse aree del pianeta. Un segnale particolarmente preoccupante per l’Italia viene con la definizione di nuove modalità di definizione dei prezzi delle materie prime e, in particolare, del petrolio, con la costituzione dell’OPEC. Proprio all’inizio della segreteria Berlinguer si ha la prima crisi petrolifera e, insieme, la fine del sistema dei cambi fissi a seguito della denuncia, da parte degli Stati Uniti, degli accordi di Breton Woods.
In Italia le conseguenze sono assai gravi. La carenza di autonome fonti energetiche e la delicata fase di ammodernamento industriale si intreccia con un vigoroso movimento rivendicativo che mette in discussione il regime di bassi salari che aveva caratterizzato tutta la prima fase del cosiddetto “miracolo economico”.
Il tentativo di rispondere alla crisi sul piano internazionale con strumenti militari nei paesi excoloniali e semicoloniali (dal Vietnam al Cile) e su quello interno con l’inflazione costituisce il primo nodo con il quale si misura l’elaborazione di Berlinguer.
Da un lato la riforma delle grandi organizzazioni internazionali con le quali affrontare problemi per i quali la dimensione nazionale si rivela ormai datata e insufficiente.
Insieme la proposta, nei paesi di frontiera, come l’Italia, di governare la delicata fase di transizione con accordi ampi tra le forze politiche che consentano alleanze come quella che, all’indomani della 2° guerra mondiale, consentì all’Italia un compromesso alto come la nostra “carta costituzionale.
Non è senza significato che in questo quadro si collochi anche una riconsiderazione della collocazione dell’Italia in Europa e nel mondo. Da un lato la crescente attenzione allo sviluppo dell’Unità europea (ne è un segno l’elezione alla Camera dei Deputati, nel 1976, di Altiero Spinelli). Dall’altro la famosa intervista sulla collocazione dell’Italia nel mondo diviso in blocchi con l’affermazione di sentirsi garantiti, nello sviluppare la propria azione, dall’appartenenza dell Italia alla NATO. È un primo segnale del crescente disagio che Berlinguer prova per la rigidità dei due blocchi e, in particolare, per l’involuzione di quello sovietico. Su questo tema, pur senza mai tagliare le proprie radici, Berlinguer svilupperà negli anni un profondo ripensamento caratterizzato, in primo luogo, dall’affermazione della democrazia come valore universale e, successivamente, dalla constatazione della “fine della spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre”, dopo lo stato d’assedio in Polonia.
Ma Berlinguer è anche consapevole che il riequilibrio dei rapporti economici tra le diverse aree del pianeta rischia di comportare un’insostenibile stretta nei paesi occidentali, a danno delle classi subalterne se non vi sarà un profondo ripensamento degli stili di vita e dei modelli produttivi. Questo è il cuore del discorso sull’austerità, non invito al “pauperismo” ma riflessione collettiva sui modi di produrre e di consumare.
Funzionale a un simile disegno deve essere l’azione dei partiti politici non centri di potere e occupazione dello Stato, per salvaguardare interessi di ristretti gruppi di potere, ma, in coerenza con la Costituzione, strumenti dei cittadini, “liberamente associati”, per “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Questo è il secondo filone di orientamento del pensiero e dell’azione di Berlinguer sin da quando, giovanissimo, fu scelto da Togliatti come perno dell’organizzazione dei giovani che affluivano, dopo la Liberazione, nelle file del PCI.
Imparò presto che per dirigere un’organizzazione complessa, in una società complessa, occorre essere capaci di fare squadra e di valorizzare il collettivo e la ricchezza delle differenze che al suo interno si ritrovano. Questo precoce apprendimento fu una delle caratteristiche del PCI, alla scuola di Togliatti, e costituì uno degli aspetti caratterizzanti lo stile di direzione di Enrico.
Molto è stato scritto sull’argomento anche per il crescere e l’accentuarsi nella fase finale della sua vita di scelte talora non adeguatamente elaborate nel corpo del partito. Una inedita documentazione su questo tema è fornita dall’importante carteggio con Tonino Tatò.
Io non voglio insistere su questo tema sul quale continuerà, naturalmente, il confronto e la discussione e vorrei portare una personale esperienza del suo modo di valorizzare il lavoro collettivo, ancora nel 1983.
All’inizio della IX legislatura si aprì nel gruppo parlamentare del PCI una discussione sulla politica fiscale. Tra i nuovi deputati eletti in quota Sinistra indipendente c’era anche Vincenzo Visco, un giovane docente universitario che con il PCI aveva collaborato sin dalla VII legislatura, nel gruppo di esperti che Giuseppe D’Alema, Presidente della Commissione Finanze della Camera, aveva arruolato. Visco era convinto del fatto che il sistema fiscale italiano dovesse essere profondamente riformato per far emergere le reali situazioni di patrimonio e di reddito e costruire una più equilibrata tassazione che, nel rispetto della Costituzione, informasse l’intero sistema, e non un singolo tributo, (l’IRPEF) “a criteri di progressività”, meglio adeguando la partecipazione dei cittadini piu abbienti al dovere di “concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. In sintonia con gli orientamenti che animavano, in altri paesi, la ricerca e l’azione politica Visco proponeva di riportare all’interno dell’imposta personale sui redditi tutti i redditi allora esclusi (a partire da quelli finanziari) e, conseguentemente, di ridurre la progressività di quel tributo. Quest’orientamento confliggeva con l’assetto esistente che prevedeva un aliquota marginale tendenzialmente crescente per l’imposizione sui redditi (anche se si trattava, in prevalenza, dei redditi da lavoro dipendente e da pensione). Il Gruppo non era riuscito a dirimere il conflitto e il responsabile del Dipartimento Economico aveva preferito coinvolgere l’intera Segreteria. Io, che allora coordinavo il lavoro delle Commissioni Economiche della Camera (e che, però, non ero componente né della Segreteria né del CC), fui invitato, come relatore, a quella riunione. Berlinguer concluse la discussione, condividendo l’impostazione riformatrice, raccomandando prudenza, per realizzare il maggior consenso, e dando il via libera all’ulteriore discussione, da formalizzare in successive proposte. Cominciò così la faticosa modernizzazione della politica fiscale del PCI che trovò applicazione con il governo di Romano Prodi. Nel lungo periodo di gestazione quella proposta fu discussa, affinata e precisata in numerose iniziative di partito e delle organizzazioni di massa e fu costruito intorno ad essa un adeguato consenso.
Oggi quei partiti non esistono più ma non è venuta meno l’esigenza di costruire un adeguato consenso di massa intorno a proposte volte ad affrontare problemi attuali di non inferiore complessità e drammaticità.
Per non far che un esempio vorrei citare lo sconvolgente risultato del 5° referendum.
Io non ho dubbi che Berlinguer, se fosse ancora vivo, ci inviterebbe a non limitarci ad “essere sconvolti”. Ci inviterebbe e riflettere sui nostri errori e, per dirla con lo slogan che concludeva spesso i suoi comizi a “lavorare casa per casa” per convincere i cittadini che il tema di epocali migrazioni quali quelle che oggi viviamo non si affronta con i respingimenti e le deportazioni ma con adeguate politiche di cooperazione per lo sviluppo nei paesi di origine e di accoglimento e integrazione dei migranti che forniscono alle nostre società contributi assai rilevanti non solo sul terreno economico, sociale ma anche su quello culturale. L’incontro tra le diverse culture, espressione di un “pluralismo ... legittimo, anzi auspicabile”, per dirlo con le parole di Paolo VI, è essenziale per il governo armonioso del mondo contemporaneo.
Credo che questo invito al lavoro di conquista, minuto e quotidiano, sia l’eredità viva di Enrico Berlinguer.
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*) Discorso tenuto l’11 giugno 2025 durante al commemorazione per il 41esimo anniversario della morte di Enrico Berlinguer curata dalla Fondazione Enrico Berlinguer con i discorsi del sindaco di Sassari Giuseppe Mascia, dell’ex parlamentare Giorgio Macciotta e dell’ex parlamentare e presidente della Fondazione Enrico Berlinguer Salvatore Cherchi davanti alla targa commemorativa di Enrico Berlinguer posta accanto alla sua casa natia in via Dante a Sassari.
La foto di Enrico Berlinguer è di Tatano Maiore,1981. La seconda foto pè relativa alal cerimnia di commemorazione del 41 anniversario delal morte tenutasi a Sassari l'11 giugno a cura della Fondazione Enrico Berlinguer.

