Napolitano: il PCI partito di governo e del socialismo europeo
di Giorgio Macciotta
A Bologna, il Congresso con il quale iniziò il lungo percorso di transizione dal PCI al PDS, Napolitano ricordò, autocriticamente, il “rovello unitario” che aveva impedito alla sua generazione di superare i limiti di una politica che ormai da molti anni aveva “esaurito la sua spinta propulsiva” e aveva impedito al PCI di collocarsi dentro il filone del “socialismo europeo”.
Eppure, almeno a partire dalla seconda metà degli anni ‘70 dello scorso secolo, lui e un nutrito gruppo di autorevoli dirigenti del PCI (da Amendola a Bufalini, Chiaromonte, Lama, Macaluso, per non far che pochi nomi) avevano cominciato a elaborare proprio in tale direzione un’ipotesi politica che si differenziava da quella di Enrico Berlinguer e che fu sprezzantemente liquidata come “migliorista”.
Quel “rovello” impedì che i dissensi uscissero dalle discussioni interne al più ristretto gruppo dirigente del PCI per divenire una pubblica piattaforma politica ma le loro elaborazioni orientarono un gruppo crescente di quadri e di dirigenti che lavorarono per fare del PCI un partito compiutamente di governo, sostanzialmente inserito nella famiglia del socialismo europeo. Il PCI, con uno slogan che divenne popolare, definiva sé stesso come “partito di lotta e di governo”. Dall’esterno era spesso percepito come un soggetto monolitico. In realtà convivevano nello stesso partito due schieramenti che attraversavano il vertice e, in misura crescente, anche la periferia.
Il fatto divenne evidente all’indomani delle elezioni del 1976, quando i rapporti di forze imposero il governo Andreotti, con la “maggioranza delle astensioni”. Nei gruppi parlamentari del PCI si confrontarono, e convissero, due posizioni: c’era chi riteneva che si trattasse di un’esperienza transitoria e, per così dire, si disponeva ad “attendere, sulla riva del fiume, il cadavere dell’avversario”, e chi, invece, pensava che gli spazi aperti dal risultato elettorale all’azione parlamentare andassero utilizzati per avviare a soluzione molti, annosi, problemi italiani.
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Le elezioni combinando il tradizionale rinnovamento e, a seguito dell’avanzata elettorale, il notevole incremento del numero degli eletti avevano modificato in modo significativo la composizione dei Gruppi e gli equilibri tra loro, creando le condizioni per innovazioni significative nel lavoro parlamentare. Due furono i fatti più rilevanti. Da un lato il riconoscimento che al maggior gruppo della sinistra andava assegnato un ruolo rilevante negli organigrammi. Ci fu l’elezione di Pietro Ingrao alla Presidenza della Camera e, insieme, l’assegnazione al PCI della Presidenza di importanti Commissioni Parlamentari (basti citare Nilde Iotti, alla Commissione Affari Costituzionali della Camera e Napoleone Colajanni alla Commissione Bilancio del Senato). Dall’altro non va sottovalutato l’impatto che ebbe, sugli orientamenti dei Gruppi comunisti, il rapporto con i Gruppi della Sinistra indipendente. Sia alla Camera che al Senato erano state candidate ed elette personalità che non solo garantivano un rilevante contributo sul piano tecnico ma rappresentavano anche un indubbio segnale di apertura politico-culturale: Altiero Spinelli (protagonista della discussione sul rafforzamento dell’Unione Europea); personalità politiche come Ferruccio Parri, Lelio Basso, Luigi Anderlini, Tullia Carettoni (espressione di una sinistra diffusa); economisti come Claudio Napoleoni e Luigi Spaventa (in grado di interloquire alla pari con le principali tecnostrutture economiche, a partire da Banca d’Italia); giuristi come Giuseppe Branca (già Presidente della Corte Costituzionale); intellettuali cattolici come Giovanni Gozzini e Raniero La Valle (che rendevano organico il rapporto con l’innovazione aperta nel mondo cattolico dal Concilio Vaticano II°).
Napolitano era, allora, responsabile del Dipartimento Economico e quindi della direzione politica in settori nei quali più rilevanti erano le modifiche da apportare rispetto al recente passato. Insieme, si portava dietro la rete di relazioni realizzata nelle ricche esperienze precedenti (a partire dalla Commissione culturale e dalla Sezione Meridionale). Fu così che, nella concreta azione istituzionale, cominciarono a emergere e a confrontarsi i diversi orientamenti interni al partito e si formò, non sempre con la consapevolezza di tutti i protagonisti, una generazione di parlamentari attenti alla costruzione di un nuovo quadro normativo. La VII° legislatura malgrado la sua brevità e la sua drammatica conclusione, segnata dal sequestro e l’omicidio di Moro e dalla fine della strategia di solidarietà nazionale, fu una delle più produttive della storia della Repubblica e proprio nei settori di competenza di Napolitano furono approvati provvedimenti che ancora oggi stanno alla base della legislazione nazionale. Tra i più significativi la disciplina della contabilità nazionale, l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale e la disciplina dell’aborto, la legge sull’equo canone, numerosi provvedimenti in materia di programmazione industriale e agricola, l’inizio dell’applicazione della legge 183/1976, che rifinanziava l’intervento straordinario nel Mezzogiorno e dettava regole per l’indispensabile coordinamento tra l’attività della Cassa per il Mezzogiorno e quella delle Regioni. Il ruolo del Dipartimento economico fu in questo lavorio assai rilevante, nel sostenere scelte innovative e nel selezionare una nuova generazione di quadri, che si sentiva rassicurata dal consenso del Dipartimento.
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L’azione di consolidamento del profilo di governo del PCI fu proseguita, e accentuata nel nuovo ruolo, di Presidente del Gruppo dei deputati Comunisti, cui Napolitano fu chiamato dopo l’improvvisa morte di Fernando Di Giulio. Data da quel periodo anche l’inizio di una mia più stretta collaborazione con lui che mi consentì di meglio apprezzarne le qualità di dirigente. Lavorare con Napolitano non era facile: il rigore che praticava nell’elaborazione delle sue posizioni lo pretendeva anche dagli altri. Aveva una sterminata capacità di lavoro: non solo predisponeva da solo i suoi interventi, riempendo i piccoli fogli in dotazione ai deputati con una grafia minuta e lievemente obliqua, ma leggeva ed annotava gli interventi e i documenti prodotti dai suoi collaboratori, cogliendo eventuali imprecisioni e lacune, e imponendo correzioni/integrazioni. Puntava a trasformare discorsi e tesi politiche in strumenti concreti di intervento. Nasce così, ad esempio, l’impegno del PCI (e il mio personale) sul tema della finanza pubblica. All’insoddisfazione sulle modalità di presentazione e di gestione dei fondamentali documenti di bilancio Napolitano scelse di dedicare, nel 1983, un seminario di studi del Gruppo della Camera, d’intesa con quello della Sinistra Indipendente. Impose che le relazioni di quel Convegno, e i suggerimenti giunti dalla discussione, fossero trasformati in una proposta di legge e una proposta di modifica dei Regolamenti parlamentari e fu così che nella II° metà degli anni ‘80, le proposte articolate dell’opposizione di sinistra si trasformarono nella legge di riforma della contabilità di Stato e nella formulazione di norme stringenti per la discussione parlamentare in materia. Era, dunque, impegnativo lavorare con lui ma c’era anche la sicurezza di ciascuno dei suoi collaboratori di essere sostenuto convintamente nei conflitti politici che talora nascevano. Capitò a me di verificarlo quando il gruppo della Commissione Bilancio decise di contestare investimenti della GEPI in una Regione “rossa”, malgrado le fosse vietato intervenire al di fuori delle aree del Mezzogiorno, o dopo uno scontro con un autorevole dirigente del PCI sulla gestione degli interventi in Aula nella discussione sulla legge finanziaria. In entrambi i casi Napolitano rivendicò la piena responsabilità e autonomia del Gruppo e, come Presidente, ne difese le scelte.
Nello stesso tempo era, come diceva di sé, un “comunista terzinternazionalista”, rispettoso delle regole allora vigenti. Se una scelta politica era assunta dagli organi competenti (la Segreteria o la Direzione) era scontato che fosse applicata dal Gruppo.
Drammaticamente il tema si presentò, nella IX° legislatura in due occasioni. La prima fu quella sull’autorizzazione all’arresto del professor Antonio Negri, accusato, dai magistrati di Padova, di delitti connessi al terrorismo, arrestato nel 1979 e uscito dal carcere nel 1983, a seguito dell’elezione alla Camera nelle liste del Partito Radicale. L’orientamento largamente maggioritario nel Partito (sezioni di lavoro e gruppi parlamentari) era per il voto favorevole e questa era anche la convinzione della maggioranza del Gruppo e di Napolitano. La pressione di Giancarlo Pajetta, al quale, memore del carcere subito nella sua giovinezza dopo la condanna del Tribunale Speciale, ripugnava votare per un arresto comunque legato a motivi politici, convinse Berlinguer e gli organi del Partito verso al voto di astensione. Napolitano portò quella decisione al Direttivo del Gruppo della Camera, proponendo che tale orientamento fosse proposto all’Assemblea, modificando precedenti posizioni. Ho chiaro il ricordo di quella discussione tormentata che si concluse con un voto favorevole alla proposta del Presidente con un solo voto di scarto.
Più delicata la seconda vicenda legata all’ultima battaglia di Berlinguer, quella contro l’intervento del governo in materia di determinazione della dinamica della scala mobile. Il tema aveva aspetti economici ma soprattutto di principio: si interveniva con legge su una materia sempre regolata da accordi sindacali. Lo scontro era tanto più rilevante perché rischiava di rompere uno dei punti di forza dello schieramento riformatore: l’unità sindacale (la Federazione CGIL-CISL-UIL) e, persino, l’unità del maggiore sindacato dei lavoratori (la CGIL). CISL, UIL e la componente socialista della CGIL avevano condiviso, infatti, il decreto del Governo, motivato dall’esigenza di attenuare il tasso di inflazione. La conversione in legge del primo decreto era stata impedita dall’ostruzionismo parlamentare. Il governo reiterò il provvedimento in una versione modificata che si presentava non come misura strutturale ma come intervento una tantum. La componente comunista della CGIL, preoccupata dell’unità interna, premeva per evitare un nuovo ostruzionismo e questo era anche l’orientamento della Presidente della Camera (Nilde Iotti) e dei Presidenti dei Gruppi del PCI (Napolitano e Chiaromonte) preoccupati dei contraccolpi sul funzionamento complessivo del Parlamento. L’accordo in tal senso raggiunto fu poi modificato con una decisione della Segreteria del PCI, imposta ai gruppi. Il secondo decreto fu, comunque, trasformato in legge con una più accorta gestione parlamentare della maggioranza. Le conseguenze furono pesanti all’interno del partito. Si giunse a un passo dalle dimissioni della Presidente della Camera e del Presidente del Gruppo della Camera.
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Il dissenso su singoli temi nasceva da qualcosa di più profondo. Con il venir meno della strategia del “compromesso storico” si era aperta nel PCI una discussione sulla prospettiva che, anche per l’accentuarsi del dissenso con le politiche dell’URSS (la fine della “spinta propulsiva”), avrebbe richiesto un più complessivo ripensamento della politica del PCI, con conseguenze sulla collocazione internazionale ma anche sulla politica interna. Era inevitabile partire dal ripensamento del ciclo di scissione dello schieramento socialista, aperto dalle origini del PCI. Di questa posizione Napolitano era, da tempo il più importante sostenitore. All’interno del PCI gli ostacoli all’assunzione di una simile posizione erano rilevanti. I due partiti, malgrado permanessero importanti punti di contatto nelle organizzazioni di massa e nelle amministrazioni regionali e locali, erano divisi sul piano nazionale dalla scelta dei socialisti che, a partire dal 1980, avevano accettato di condividere il governo con la DC, sulla base di una posizione che, archiviata la strategia dell’attenzione di Aldo Moro, teorizzava l’esclusione di ogni rapporto con il PCI. C’era, poi, la persistenza di rapporti di politica internazionale che impedivano al PCI il pieno superamento del “legame di ferro” con l’URSS. C’era, infine, la “mutazione genetica “del PSI che utilizzava in modo spregiudicato il potere per tentare un rovesciamento dei rapporti di forza all’interno della sinistra. La “questione morale” era l’argomento che, con più forza veniva utilizzato, ad uso interno, per bloccare ogni possibilità di dialogo per i socialisti e per proporre una strategia di alleanze fondata su “competenti e onesti”. Era una posizione che avvelenava i rapporti interni e che non rendeva giustizia al rigore morale di Giorgio Napolitano, che non faceva sconti sull’uso spregiudicato del potere. Vorrei ricordare l’acceso dibattito parlamentare che si svolse su questo tema in occasione della nomina di Umberto Colombo alla Presidenza dell’ENI e della sua successiva revoca. Con la nomina di Colombo l’ENI sembrava avviato a superare la crisi determinata dall’oscura vicenda delle tangenti legate al contratto con la Petromin per la fornitura di petrolio dall’Arabia Saudita. Poi, improvvisamente, la revoca di quella nomina senza pubblicamente indicarne un motivo, anche perché sarebbe stato difficile riconoscere che alla base di tale scelta stava l’opposizione di Colombo alla nomina, come vicepresidente, in quota PSI, del dr. Leonardo Di Donna, iscritto alla Loggia massonica P2. Napolitano mi chiese di stendere un’interpellanza urgente al Presidente del Consiglio. Io scrissi un testo che teneva conto del suo stile “sobrio”. Quando gli sottoposi la bozza aggiunse di suo pugno una aggettivazione per lui inusuale. Scrisse che si trattava di “decisioni che rappresentavano una violazione inaudita di ogni impegno di correttezza, senso di responsabilità e pubblica moralità nell’esercizio dei poteri di nomina spettanti al Governo” e denunciò “la pesante pressione, scandalosamente esercitata sul professor Colombo al fine di indurlo a rassegnare il mandato”. Nell’illustrazione e nella replica rincarò la dose. Parlò di “inaudita decisione” e di “parole di sdegno e di allarme di cui (disse) abbiamo misurato, come è nostro costume, tutta la gravità … politica … istituzionale e morale”. Condannò, con nettezza la subalternità di Fanfani alle posizioni del ministro De Michelis e, “fatto singolare”, del “segretario di un partito di maggioranza, l’onorevole Craxi”. Dopo l’imbarazzato intervento del Presidente del Consiglio Fanfani ribadì “sorpresa” e “sdegno” e parlò di “ipocrita copertura” alle decisioni assunte e sostenne che “la battaglia contro lottizzazione e arbitrii senza scrupoli” è “un elemento essenziale di un’alternativa di Governo”.
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Solo dopo la drammatica morte di Berlinguer, al termine di un duro scontro congressuale al Congresso di Firenze, si affermò che il PCI doveva puntare a un pieno inserimento nel campo del socialismo europeo. Napolitano, passato alla direzione del Dipartimento esteri fu l’infaticabile tessitore di un nuovo rapporto con i principali partiti socialisti e la sua autorevolezza fu una tra le carte fondamentali che, malgrado il dissenso sostanziale dei soci italiani, portò all’accoglimento della richiesta italiana di adesione all’Internazionale Socialista. Fu l’inizio di un percorso che, anche per il mutare del quadro internazionale di riferimento (il crollo del muro di Berlino, la dissoluzione dell’URSS, la repressione del dissenso cinese) comportò la transizione dal PCI al PDS. Anche in questo caso il “rovello” unitario si fece sentire: l’area riformista, la cui posizione si era, nel tempo, meglio precisata e definita, decise a grande maggioranza, su proposta di Napolitano, di non presentare una propria specifica mozione ma di aderire, con un proprio argomentato documento, alla mozione presentata da Achille Occhetto. Da quella decisione scaturirono polemiche, dolorose lacerazioni interne, fine di antiche amicizie.
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Una così vasta e qualificata attività politica, che aveva attraversato interamente la seconda metà del XX° secolo comportò, quasi naturalmente, la prestigiosa proiezione istituzionale nella parte conclusiva della sua vita: la presidenza della Camera dei Deputati, il delicato ruolo di Ministro dell’Interno nel I° Governo Prodi, la Presidenza della Commissione Affari istituzionali del Parlamento Europeo che gli fu affidata per l’intero quinquennio (rompendo la prassi dell’alternanza a metà mandato), la nomina a Senatore a vita, la doppia elezione alla Presidenza della Repubblica. Nel corso di tale mandato fu, spesso, essenziale garante dell’Italia nei rapporti con l’Europa e con il mondo.
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Ma questo impegno ai massimi livelli della politica nazionale, e non solo, non ha mai distolto Napolitano da un rapporto con il mondo del lavoro e delle classi subalterne. Lo stesso impegno che poneva nella preparazione dei più delicati interventi istituzionali lo dedicava alla preparazione delle iniziative di base. Lo sanno bene i dirigenti di partito che, avendo chiesto un suo impegno, si vedevano richiedere dossier sulla situazione dei territori e delle fabbriche che avrebbe dovuto visitare. Essi sanno, però, con quale attenzione, e con quale attività di autorevole “moral suasion”, egli seguisse gli sviluppi delle situazioni che gli venivano sottoposte. Quando l’età e i crescenti impegni più generali gli imposero di limitare questo lavoro preferì rinunciare all’elezione in un sicuro collegio uninominale alla Camera e non fu eletto parlamentare. Alla Sardegna ha dedicato attenzione e iniziative su terreni cruciali: partecipe alle condizione di degrado del tessuto economico che emergevano nelle numerose visite in aree di crisi industriale (dalla chimica alla metallurgia); attento, da Ministro dell’Interno, ai temi della criminalità, con incontri approfonditi, con le autorità locali, sulle esigenze della sicurezza e della giustizia; sostenitore autorevole di tutte le iniziative volte a consolidare il rapporto di Gramsci con la sua terra, come dimostrano le presenze a Ghilarza da Presidente della Camera e da Presidente della Repubblica e il suo appassionato sostegno alle due principali iniziative promosse in materia: la pubblicazione dell’Edizione nazionale delle Opere (che onorò con la sua partecipazione alla presentazione dei primi due volume dei Quaderni del carcere) e la Fondazione Casa Museo, di cui seguì con attenzione la costituzione e la prima non facile attività.
Un testo su cui riflettere.
Un pezzo di storia e un groviglio di passioni.
Grazie, l'ho corretto.
Gabriele Calvisi
Già scritto