Con Berlinguer mi sono sentito orgogliosamente comunista
di Massimo Dadea
Mi sono iscritto al PCI nel 1974, dopo una breve militanza nelle file della Federazione Giovanile Socialista Italiana, affascinato dalla figura di Riccardo Lombardi. Una scelta sofferta, quella di aderire ai giovani socialisti, venivo infatti da una famiglia comunista. Ben presto mi resi conto che il visionario riformismo di Riccardo Lombardi aveva scarso credito all’interno del PSI. La scarsa incisività del suo pensiero sulle strategie e soprattutto sulla prassi quotidiana di quel partito, facevano di lui una sorta di profeta disarmato che gridava al deserto, in un partito in tutt’altre faccende affaccendato.
Mi iscrissi allora al PCI convinto che, in quella fase storica, fosse l’unico strumento di cambiamento della società italiana. La mia prima tessera servì innanzitutto a riconciliarmi con mio padre, vecchio militante comunista. Il mio modello è stato da subito Enrico Berlinguer, da poco eletto segretario nazionale. Mi sono identificato nel suo pensiero, nel suo insegnamento, nella sua visione della società italiana, nella sua denuncia sui mali e sui vizi del nostro Paese. Vedevo in Berlinguer, pur nella loro intrinseca diversità, la stessa intransigente onestà, lo stesso rigore etico e morale di Riccardo Lombardi. Due uomini, due personalità politiche, che mi sono stati accanto nel corso della mia esperienza politica. Ho militato nel PCI per sedici anni, sino al momento del suo dissolvimento. Non so se sono stato comunista, se sono mai stato comunista: sicuramente mi sono sentito orgogliosamente comunista. Ho sentito l’orgoglio di essere parte di quel grande partito, di quel vasto movimento di popolo che aveva riposto nel PCI la speranza di poter cambiare l’Italia, di poter costruire una società più giusta, più eguale, più pulita, più onesta.
Ho cercato di essere comunista senza per questo tradire quello spirito libertario che era ed è parte integrante della mia formazione politica. Difficilmente sarei diventato un militante del PCI senza la stella polare di Enrico Berlinguer. Il mio pensiero va, oggi, al mio ultimo incontro con il leader comunista. L’avevo incontrato nel corso della sua ultima visita in Sardegna, quattro mesi prima della sua morte. I compagni avevano organizzato per lui un programma intenso, faticoso. In soli quattro giorni percorse oltre mille chilometri, incontrando i minatori del Sulcis Iglesiente, gli operai di Ottana e Porto Torres, i contadini e i pastori della Cooperativa di Isalle, di Dorgali, gli studenti del liceo De Castro ad Oristano.
Di lui mi colpirono due cose. La prima. Il modo meticoloso, quasi pignolo, con cui preparava ogni incontro, ogni comizio. Rimaneva sino a tardi ad informarsi dai compagni, a prendere appunti, mentre avvolto da una nuvola di fumo, consumava l’ennesima sigaretta. La seconda, il suo viso. Un viso sofferente, solcato da un sorriso tirato che accentuava la profondità delle pieghe ai lati della bocca. Segni inequivocabili di una stanchezza che avrebbe consigliato un meritato riposo. Eppure, continuava a stringere mani, a fare comizi, ad incoraggiare il popolo comunista in vista delle elezioni europee e, in Sardegna, del rinnovo del Consiglio regionale. Senza risparmiarsi, con una dedizione e uno spirito di sacrificio che solo un grande ideale, quello per cui si è spesa la propria vita, potevano giustificare.
Poi, inevitabilmente, il mio ricordo va al giorno del suo funerale. Più che le esequie di un grande uomo politico furono uno straordinario incontro di popolo. A Roma, in una giornata calda e particolarmente assolata, si radunarono oltre un milione di persone, a testimonianza di una emozione, di un dolore, di uno smarrimento, che andavano bel oltre il popolo comunista. Il suo stile sobrio, il suo eloquio asciutto e privo di fronzoli, il suo rigore morale, il suo sorriso dolce e disarmante, ne avevano fatto l’uomo politico più apprezzato, rispettato e ascoltato. A quel funerale era presente una folta delegazione di comunisti sardi. In mille arrivarono con due navi che erano state destinate solo per loro. Io ero parte di quella folla. Ci ritrovammo tutti dietro lo striscione che recava il saluto dei comunisti sardi: Dalla Sardegna, Enrico, il saluto e il rimpianto dei tuoi compagni e della tua gente, scritto dal compianto Walter Piludu. Fianco a fianco, gomito a gomito, orgogliosi di quel sardo che riassumeva in sé il meglio del carattere dei sardi: mite e testardo, silenzioso e acuto, riservato e orgoglioso, serio e leale. Un popolo ferito, ma consapevole e fiducioso che il suo lascito politico, morale e culturale, non sarebbe andato perduto.
L’amore, l’affetto e il rispetto che circondavano Enrico Berlinguer andavano ben oltre il popolo comunista. La sua testarda denuncia della degenerazione dei partiti, la sua critica sferzante nei confronti di una società segnata dall’individualismo e dal consumismo, la sua denuncia della questione morale che avviluppava oramai tutti i gangli della vita politica ed istituzionale, la sua lungimirante anticipazione di temi quali la difesa dell’ambiente, i diritti delle donne, l’uso delle nuove tecnologie informatiche, ne avevano fatto l’uomo politico italiano più ascoltato ed apprezzato. La morte prematura di Berlinguer aveva impedito che si portasse a compimento la lunga “traversata nel deserto”, iniziata, nel 1981, proprio dal Segretario del PCI, con la dichiarazione che annunciava “la fine della spinta propulsiva delle società dell’est europeo, in primo luogo dell’Unione Sovietica”, che avrebbe portato, senza attendere il crollo del muro di Berlino, alla trasformazione del PCI in un moderno partito del socialismo europeo.
Così come l’assassinio di Aldo Moro, nel 1978, aveva impedito l’incontro tra il PCI e la DC, finalizzato a sbloccare il sistema politico italiano, ingessato dalla anacronistica divisione in blocchi contrapposti quello sovietico e quello americano, scaturita alla fine della Seconda guerra mondiale. In molti vi era però la sensazione che, dopo la morte di Berlinguer, niente sarebbe stato più come prima.
A rileggere oggi quelle emozioni, quelle speranze, bisogna amaramente ammettere che una parte importante di quel patrimonio ideale e politico è andato perso, frantumato, nei tanti rivoli in cui si è divisa, in questi anni, la sinistra.
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Massimo Dadea, nato a Nuoro nel 1950, medico cardiologo. È stato consigliere regionale del PCI per due legislature e assessore regionale alle riforme nella giunta Soru. Scrittore apprezzato, è autore di diversi libri: “La febbre del fare” (CUEC) 2009, “La maledizione libertaria” (CUEC) 2014, “L’Omeopata “Il Maestrale (2017), “Stella” Max88 Edizioni (2020),“Indomita“ Scatole Parlanti” 2021.